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Subito sotto articolo tratto da LA VIA LIBERA (www.lavialibera.libera.it/);

segue articolo tratto dalla rivista "VALORI";

ed infine saluto dei Disarmisti esigenti al presidio, davanti alla sede dell'Autorità portuale, indetto dal CALP il 22 luglio 2021

La battaglia dei portuali genovesi contro le navi della morte

La Bahri Jazan, il 22 luglio nel porto di Genova. Credits: Dalrì/Sclippa

L'ultima nave della compagnia saudita, potenzialmente carica di armamenti, è attraccata ieri all'alba nel porto di Genova. Ad attenderla i lavoratori del Calp, che dopo due ore di presidio sono riusciti a ottenere un incontro con l'Autorità portuale

Francesca Dalrì

Francesca Dalrì Redattrice lavialibera

Natalie Sclippa

Natalie Sclippa Redattrice lavialibera

23 luglio 2021

Le chiamano le "sorelle della morte". Sono sei navi della compagnia nazionale saudita Bahri che, a volte, oltre alle classiche merci trasportano armamenti diretti nei teatri di guerra del mondo. Una di queste – la Bahri Jazan – è attraccata ieri alle 3:14 nel porto di Genova. Ad attenderla c'erano alcuni membri del Collettivo autonomo lavoratori portuali (Calp) che da due anni si oppongono al transito delle sei sorelle nel porto. Insieme all'Unione sindacale di base (Usb) hanno organizzato un presidio davanti a palazzo San Giorgio, sede dell'Autorità portuale. A sostenerli, c'erano associazioni antimilitariste, attivisti, ong e il fumettista Zerocalcare.

La battaglia è iniziata nel maggio 2019 quando un gruppo di portuali genovesi è riuscito a bloccare una delle sei sorelle, impedendole di caricare materiale bellico destinato alla guerra in Yemen. Per il loro impegno, a giugno i portuali hanno ricevuto il sostegno del Papa, che li ha invitati a proseguire le azioni di boicottaggio. Ieri, dopo due ore di protesta, i lavoratori sono riusciti a ottenere un primo incontro con l'Autorità portuale. Chiedono di conoscere il carico della nave e che il porto adotti subito un codice etico che permetta loro di "lavorare per il commercio pacifico al servizio del benessere dei popoli e non per la guerra e la violazione dei diritti umani".

Genova, 22 luglio 2021. La protesta dei portuali davanti a palazzo San Giorgio

Le mani delle mafie sui porti d'Italia

Le richieste dei portuali

Le sorelle della morte (la Jeddah, la Tabuk, la Abha, la Hofuf, la Yanbu e la Jazan) sulla carta non figurano come tali. In gergo si definiscono Ro-ro cargo ship: navi per il trasporto merci, caricano e scaricano container nei porti di tutto il mondo. Container che, a volte, oltre alle classiche merci trasportano armamenti diretti nei teatri di guerra del mondo. Il primo caso è scoppiato a maggio 2019 e riguardava la Bahri Yanbu. Il sito d'inchiesta francese Disclose segnalò la presenza di cannoni Cesar venduti dalla Francia e diretti in Yemen, dove dal 2015 è in corso una guerra civile che vede l’Arabia Saudita guidare la Coalizione contro i ribelli Houthi. La Yanbu doveva passare da Le Havre, in Francia, ma la segnalazione diede il via a una mobilitazione di associazioni pacifiste, ong e attivisti che impedì alla nave di attraccare. Al boicottaggio si unirono i portuali genovesi, forti all'ora del sostegno della Cgil che proclamò uno sciopero sulla base della non corrispondenza tra il carico dichiarato e la segnalazione del sito francese. La nave arrivò nel porto di Genova ma ripartì senza aver caricato i container incriminati.

Da quel momento, i portuali chiedono che venga rispettata la legge 185/1990 che vieta esplicitamente "l'esportazione ed il transito di materiali di armamento verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani".

Ieri mattina al centro dell'attenzione è finita la Bahri Jazan, una nave di 225 metri di lunghezza proveniente da Dundalk, il porto di Baltimora negli Usa, e diretta a Iskenderun, in Turchia, il punto più vicino al confine con la Siria. I portuali hanno chiesto all'Autorità portuale: di conoscere il carico della nave per controllare la corrispondenza alle norme di sicurezza dei lavoratori e al commercio internazionale di armi; garanzie per potere lavorare in un porto sostenibile non solo dal punto di vista ambientale (come previsto dagli imminenti investimenti previsti dal Pnrr), ma anche sociale; di poter lavorare per il commercio pacifico al servizio del benessere dei popoli e non per la guerra e la violazione dei diritti umani; l'archiviazione del procedimento penale che vede coinvolti sette portuali (vedi paragrafo seguente). "Il trasporto di armi sta diventando normale – è l'accusa del portuale Riccardo Rudino –. Questo per noi è sia un problema etico che di sicurezza".

Alla manifestazione era presente anche Zerocalcare: ”Ero in città per il ventennale del G8, ho conosciuto il Calp e scoperto dell'iniziativa. Sono qui per solidarietà con i portuali sotto inchiesta, ma anche per sostenere una battaglia che non dovrebbe nemmeno esistere: permettendo il transito di armamenti dall'Italia a Paesi in guerra stanno infrangendo una legge e la stessa Costituzione. Ci sono delle persone accusate di associazione a delinquere per aver difeso la Costituzione, questo ci riguarda tutti".

"Calp, associazione a delinquere"

Le magliette del Collettivo autonomo lavoratori portuali contro l'inchiesta per associazione a delinquere nei confronti di sette portuali

Sul retro delle magliette che molti portuali e sostenitori indossano in piazza c'è scritto: "Calp, associazione a delinquere". Una scritta stampata dopo l'inchiesta della procura di Genova che vede indagati sette portuali per associazione a delinquere finalizzata alla resistenza a pubblico ufficiale e all'attentato alla sicurezza pubblica dei trasporti. "Dentro al porto siamo ormai osservati speciali, è difficile portare avanti azioni di protesta contro le navi che attraccano", ci racconta Rosario, 43 anni, tra gli indagati. Tra le accuse è compresa infatti l'accensione di fumogeni utilizzati durante le proteste contro le navi Bahri attraccate in questi due anni nel porto. Rosario questo lavoro lo fa da quando aveva 21 anni, ma in oltre vent'anni di lavoro non aveva mai avuto problemi con la giustizia. "Ci sono entrati in casa all'alba, hanno perquisito le nostre abitazioni, sequestrato telefonini e cellulari. Ma non abbiamo paura: siamo dalla parte della ragione e non facciamo del male a nessuno".

I portuali non demordono, forti anche dell'appoggio di Papa Francesco che il 23 giugno scorso ha incontrato personalmente una delegazione di lavoratori. "Avete coraggio a non caricare le armi – ha detto loro il Papa –. Continuate queste lotte, bene avete fatto a bloccare queste navi da guerra cariche di armi, continuate così". "Il Papa ci ha detto di andare avanti – ha ribadito ieri in piazza un esponente dell'Unione sindacale di base (Usb), il sindacato che sostiene la lotta dei portuali –. Vorrei che la Digos lo ascoltasse. Noi andiamo avanti perché è inaccettabile che la nostra città rifornisca armi da guerra e le autorità si girino dall’altra parte. Questa è una battaglia di tutta la città, c’è bisogno che i movimenti e le istituzioni si esprimano sul mancato rispetto delle leggi in questo Paese, da parte dell'Autorità portuale che avrebbe il compito di vigilare e invece dorme, perché evidentemente ci sono accordi di natura economica, che contano di più non solo delle regole, ma anche della pace. Tutti devono chiarire da che parte stanno: per la guerra e per gli affari o per la pace e per l’ospitalità dei popoli”.

Droga e porti, la via del mare

Le prossime mosse: una rete internazionale

“Non avevano ancora letto la lettera che gli avevamo inviato – ha spiegato Josè Nivoi del Calp all'uscita dall'incontro con l'Autorità portuale –. Faranno un passaggio con la Prefettura e poi di nuovo a fine settembre con noi. Per quanto riguarda la sicurezza, hanno inviato gli ispettori di garanzia dell’Autorità portuale”. La denuncia era partita dopo il caso dello spostamento di merce sospesa sopra dodici container contenenti esplosivo, episodio in seguito al quale i portuali hanno inoltrato una nota al Genoa metal terminal (Gmt), operatore leader in Italia per la logistica dei metalli.

Nel frattempo, i portuali si stanno organizzando per dar vita a una rete internazionale che blocchi le attività delle navi Bahri nel maggior numero possibile di porti al mondo. Il 16 luglio si è tenuta online la prima Conferenza internazionale dei portuali. Alla videochiamata hanno preso parte portuali provenienti dai porti di Livorno, Napoli, Trieste, Barcellona, Motril e Segunto (Spagna), Pireo (Grecia), Marsiglia (Francia) Esbjerg (California), Durban (Sudafrica), nonché le organizzazioni Block the boat, Amnesty international, La guerra empieza aqui e l'Assemblea internazionale dei popoli Europa.

Un primo passo a cui faranno seguito una seconda assemblea prevista per metà settembre e una giornata di sciopero internazionale. “Le nostre iniziative non si fermano con le letterine e con gli incontri – ha concluso Nivoi –. Se riusciremo a bloccare il carico e lo scarico di merci per un'intera giornata, non potranno più evitare le nostre domande".

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I portuali in lotta contro il transito di armi. Da Genova ad Amburgo (altreconomia.it)

I portuali in lotta contro il transito di armi. Da Genova ad Amburgo

L’osservatorio Weapon watch monitora e contrasta il transito di armamenti nei porti europei e mediterranei destinato a Paesi in guerra. Il 22 luglio a Genova è in programma un sit-in contro l’arrivo della “Bahri Jazan”. La rete è attiva anche a Trieste. Intanto ad Amburgo i cittadini promuovono un referendum per vietare l’attracco a chi trasporta armi

Non essere complici del trasporto di armamenti verso zone di guerra come Yemen e Palestina. È la rotta che collega le proteste dei lavoratori portuali di alcuni dei principali porti europei e transatlantici: da Genova, Trieste, Livorno e Napoli passando per Le Havre, Anversa e Santander fino in California, ad Oakland. “Una rete di collaborazioni -spiega Carlo Tombola, coordinatore dell’osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei Weapon watch– che risponde a un’esigenza elementare: la catena di trasferimenti degli armamenti supera i confini nazionali e le azioni di boicottaggio possono essere efficaci solo se coordinate”. Un coordinamento che recentemente ha portato gli attivisti di Trieste e Amburgo a collaborare per monitorare i transiti nel porto triestino.

Weapon watch nasce nel maggio 2019 a seguito del boicottaggio da parte dei portuali di Genova del transito della nave “Bahri Yanbu”, cargo battente bandiera saudita, che si era già vista negare l’approdo a Le Havre, in Francia, dove avrebbe dovuto caricare otto cannoni semi-moventi. “Il caricatore dichiarava che la merce che avrebbe caricato a Genova non era militare -ricorda Tombola-. La documentazione da noi ottenuta rivelava però la falsità di quelle affermazioni. Di fronte all’evidenza delle carte, le autorità genovesi hanno mediato, permettendo il transito ma negando la possibilità di caricare i container”.

A seguito della vicenda, gli attivisti hanno deciso di dare vita a un osservatorio che monitorasse il transito nelle aree portuali con la consapevolezza di non poter limitare l’attività al contesto italiano. “Quello che è successo con la ‘Bahri Yanbu’ -spiega Tombola- ci ha dimostrato che il boicottaggio non può che essere internazionale, così come lo è la catena di fornitura degli armamenti”. Azioni coordinate di protesta e di monitoraggio che si aggiungono alle attività più strettamente legali. Perché il nodo centrale del transito di armamenti nei porti italiani sta nel mancato rispetto della legge 185/1990 e del Trattato internazionale sulle armi convenzionali (Att), entrato in vigore il 24 dicembre 2014, che vietano sia l’esportazione sia il transito e il trasbordo delle merci militari verso Paesi a rischio bellico e grave violazione dei diritti umani.

“Dopo il 2001, per questioni legate alla sicurezza e al terrorismo, il contenuto di un container, non soltanto se pericoloso, viene reso noto con grande anticipo dal trasportatore alle autorità portuali, al capitano e alla Prefettura, oltre che ovviamente al capitano -continua Tombola-. Questo perché il carico deve essere trattato in un determinato modo. Il nostro obiettivo è rendere pubblico il transito quando le armi sono dirette verso Paesi a rischio”. Questo è più semplice quando il trasferimento riguarda armamenti di grandi dimensioni, si pensi ad elicotteri e blindati, più complesso quando la merce è nascosta dalle pareti di un container. “Le ispezioni sui container spettano solamente alle autorità ma i controlli sono ridottissimi -sottolinea Tombola-. È la logistica che detta le regole e, in nome della velocità ed efficienza dei trasporti, meno del 1% dei container che transitano in Europa vengono controllati”.

La rete si è mobilitata anche nel porto di Trieste. Nel giugno 2021, alcuni attivisti tedeschi su mandato di Weapon watch hanno partecipato all’assemblea dei soci della Hamburger Hafen und Logistik AG (Hhla), una società di trasbordo che, dall’aprile 2021, detiene la quota di maggioranza (50,01%) nel terminal multifunzionale Piattaforma logistica Trieste (Plt). La concessione durerà fino al 2052 e il ruolo dell’azienda, con sede ad Amburgo, in Germania, è fondamentale rispetto alle politiche di transito nel porto triestino. Durante l’assemblea, l’attuale amministratore delegato ha affermato che “sono i clienti che decidono cosa viene gestito, di solito la Hhla non conosce il contenuto specifico ma può solo vedere se sono merci pericolose”, sottolineando come gli armamenti “non siano automaticamente merci pericolose”.

Affermazioni contestate dal coordinatore della rete: “Come detto si è sempre a conoscenza della presenza o meno di merci pericolose. Soprattutto, l’affermazione che le armi non sono automaticamente merci pericolose è piuttosto sconcertante, in ogni caso, non sono paragonabili a merci ordinarie”. Una nota preoccupante anche se, proprio a Trieste, il presidente dell’area portuale Zeno D’Agostino ha firmato un atto amministrativo, precedente alle proteste dei portuali, che sottolinea la necessità del rispetto dei trattati internazionali e del divieto di transito di armi verso Paesi in guerra. “La presa di posizione di D’Agostino è fondamentale -sottolinea Tombola-. Serve monitoraggio: il porto triestino è molto importante, per la sua posizione geografica e non può diventare un hub per gli armamenti”.

Il traghetto “Cappadocia Seaways” (già “Und Atilim”), battente bandiera turca e gestito da U.N. Ro-Ro di Istanbul. “È una delle molte navi classificate Hazard A (Major), cioè abilitate al trasporto di esplosivi e munizioni, che scala regolarmente il porto di Trieste”, denuncia Weapon watch

In un periodo “soddisfacente” secondo Tombola, rispetto alle evoluzioni nell’attività della rete dei lavoratori portuali, si registrano anche note negative. Nel febbraio 2021, la Procura di Genova ha messo sotto inchiesta cinque attivisti del Collettivo autonomo lavoratori portuali (Calp) ai quali si contesta l’accensione di fumogeni e imbrattamento, due reati minori ma che sono un segnale forte rispetto alle azioni messe in atto dal Calp. “Aver aperto un’inchiesta e non averla ancora chiusa dimostrerebbe che la richiesta sia stata in qualche maniera ‘imprenditoriale’. L’azienda che gestisce le navi ‘Bahri’, genovese, aveva dichiarato pubblicamente che era necessario un intervento. È un’azione preventiva e dal mio punto di vista intimidatoria della magistratura nonostante precedentemente fosse stata sollecitata tramite un nostro esposto su 185 violazioni della normativa internazionale sulle violazioni della normativa internazionale sul transito di armamenti”.

A questa mossa ne è seguita un’altra di segno opposto che ha aiutato il movimento a guadagnare legittimazione. Papa Francesco ha mostrato, fin da subito, solidarietà rispetto alle proteste dei portuali. “Ha convocato in udienza privata i cinque lavoratori prendendo posizione in modo netto -spiega Tombola-. Speriamo sia servito a far capire che parte della società civile è dalla nostra”. Anche perché il transito di armamenti nel porto genovese è rischioso per i cittadini che vivono a ridosso della zona portuale. “Le case sono a 400 metri di distanza da dove solitamente stazionano le navi. Non è una distanza sufficiente. Nell’arco di 800 metri ci sono due depositi petrolifero e chimico che, se coinvolti in un’esplosione, avrebbero effetti devastanti”.

Anche per questo motivo, gli attivisti di Weapon watch guardano al futuro, in particolare in direzione di Amburgo dove una rete cittadina sta raccogliendo le firme per un referendum attraverso cui adottare una legge che vieti l’attracco di navi che trasportano armi nel porto cittadino. “Un’azione molto interessante, che stiamo pensando di riproporre anche in alcuni porti italiani”. Nel frattempo, le proteste e le “braccia incrociate”, continuano. Nella mattinata di giovedì 22 luglio 2021 è previsto l’attracco della “Bahri Jazan” a Genova. I portuali hanno già annunciato sit-in di protesta sul molo. “Una protesta che assume particolare significato perché cade nei giorni dell’anniversario del G8 -conclude Tombola-. Le lotte di vent’anni fa sono molto vicine a quelle di oggi. I portuali si sentono eredi di quella lotta e ne condividono i valori compresa la nonviolenza”.

© riproduzione riservata

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L'intervento di Alfonso Navarra dei Disarmisti esigenti al presidio indetto dal CALP

Car* compagn* ,

abbiamo preso visione del vostro appello contro le navi della morte nei porti e del vostro invito al presidio sotto Palazzo San Giorgio (dalle 10-30 alle 12).
Parlando anche a nome di Sardegna Pulita, che vi ha inviato un messaggio, ribadiamo che siamo d'accordo con gli obiettivi che proponete - un porto disarmato dedito a "traffici" di pace - richiamandovi alla 195/90 e solidarizziamo con i 7 compagni processati per proteste pacifiche del tutto necessarie e giuste se si guarda allo spirito e alla lettera della nostra Costituzione, nata dalla Resistenza antifascista...
Nei porti militari e soprattutto nucleari in Italia - e nella UE di cui il nostro Paese è membro fondatore - tutte le istituzioni dovrebbero impedire i traffici di armi ed il via vai di centrali nucleari galleggianti, che potrebbero persino trasportare armi atomiche se facenti parte della Marina delle potenze nucleari NATO.
Sarebbe opportuno costruire coordinamenti ecopacifisti europei e fare convergere quelli che esistono per scadenze e mete comuni, su cui marciare autonomamente ma per colpire uniti il sistema del profitto e della potenza.
Una scadenza comune che sottoponiamo alla vostra attenzione potrebbe essere la preCOP sul clima che, in vista della COP di Glasgow, si tiene a Milano dal 30 settembre al 2 ottobre.
A livello internazionale molti gruppi si stanno battendo perché il peso emissivo dell'inquinamento da CO2 delle attività militari (circa il 20%) sia inserito negli accordi di Parigi sul clima e quindi il disarmo sia contemplato come soluzione.
Gli strumenti di morte è meglio, prima di venderli, non produrli a monte ed ancora meglio è fare cessare le guerre in cui sono impiegati, dato che quasi sempre sono espressione di logiche di sfruttamento dei popoli: il disarmo dei potenti, che favorisce le insorgenze sociali, è una via di pace e di giustizia!
Al nostro comune posto di lotta!

 

 

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