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diarifineguerra2024

UCRAINA/MEDIO ORIENTE - DIARI DI FINE GUERRA

Considerazioni sul possibile ed auspicato scenario di cessazione dei combattimenti nell'Est Europa e avvio dei negoziati a partire dallo "stallo" (sconfitta?) della controffensiva lanciata dall'esercito di Kiev.

Ma la "guerra mondiale a pezzetti", con il 7 ottobre 2023 di Hamas e la risposta israeliana su Gaza, e con gli attacchi Houthi nel Mar Rosso, accende un incendio in Medio Oriente che può determinare un ulteriore motore di generalizzazione verso un conflitto globale.

La "tendenza alla guerra", come conflitti, riarmo e militarizzazione, si rafforza, anche se il movimento disarmista coerente non deve cedere al fatalismo che dà per scontata la deriva verso la terza guerra mondiale.

Riprendiamo il lavoro iniziato nel 2023. (La prima puntata del 2024 sarebbe la sedicesima, se calcolata nel lavoro complessivo).

dal febbraio 2024

sulla base della rassegna stampa dei principali quotidiani e delle riviste di geopolitica

a cura di Alfonso Navarra - coordinatore dei Disarmisti esigenti

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Puntata 2/2024 dei “Diari di fine guerra Ucraina/Medio Oriente –20 febbraio 2024

si vada al link: http://www.disarmistiesigenti.org/2024/02/17/diarifineguerra2024/

Considerazioni sul possibile ed auspicato scenario di cessazione dei combattimenti nell'Est Europa e avvio dei negoziati a partire dallo "stallo" (sconfitta?) della controffensiva lanciata dall'esercito di Kiev. Ma la "guerra mondiale a pezzetti", con il 7 ottobre 2023 di Hamas e la risposta israeliana su Gaza, e con gli attacchi Houthi nel Mar Rosso, accende un incendio in Medio Oriente che può determinare un ulteriore motore di generalizzazione verso un conflitto globale. La "tendenza alla guerra", come conflitti, riarmo e militarizzazione, si rafforza, anche se il movimento disarmista coerente non deve cedere al fatalismo che dà per scontata la deriva verso la terza guerra mondiale. Riprendiamo il lavoro iniziato nel 2023. (Nota bene. La prima puntata del 2024 sarebbe la sedicesima, se calcolata nel lavoro complessivo).

dal febbraio 2024 - sulla base della rassegna stampa dei principali quotidiani e delle riviste di geopolitica

a cura di Alfonso Navarra - coordinatore dei Disarmisti esigenti

La Seconda Puntata del 2024 è suddivisa in X parti:

Parte I - ANALISI DI ALFONSO NAVARRA. STRANO MA VERO: PUTIN VORREBBE TRATTARE? FORSE, MA ALLE SUE CONDIZIONI

Parte II - INTANTO L’EUROPA SI INDIRIZZA VERSO L’ECONOMIA DI GUERRA

Parte III –IL PATTO MELONI-ZELENSKY "PER LA SICUEREZZA E LA RICOSTRUZIONE DELL'UCRAINA"

 

PARTE 1 - STRANO MA VERO: PUTIN VORREBBE TRATTARE? FORSE, MA ALLE SUE CONDIZIONI

Di Alfonso Navarra – Disarmisti esigenti

La roccaforte ucraina di Avdiivka è appena caduta, l’esercito russo avanza su tutta la linea, ma Vladimir Putin dichiara: “Siamo pronti al dialogo”, aggiungendo che “se non fosse stato per l’Occidente, i combattimenti sarebbero cessati un anno e mezzo fa”. Ancora più strano è che questa voglia di negoziato si manifesti dopo la morte del più noto oppositore del regime putiniano, le cui circostanze non chiare sembrano aver riacceso la voglia di USA e alleati di puntargli il dito contro, confermando il sostegno militare ai nemici di Kiev.

Il presidente USA ha telefonato personalmente a Zelensky: “Trovo assurda l’idea che ora stiano finendo le munizioni e che noi ce ne andiamo. Sono fiducioso che la Camera degli Stati Uniti darà disco verde ai 60 miliardi che sono già passati per il voto del Senato.

A giugno dovrebbero essere consegnati all’Ucraina i primi caccia F16 americani, il cui arrivo avrebbe dovuto avvenire già nel primo trimestre del 2024.

Gli obiettivi della mossa dialogante di Putin: passare all’incasso su neutralità dell’Ucraina e uscita di scena della NATO

A cosa allude Putin quando evoca il negoziato scaricando la responsabilità del suo ritardo? Bisogna tornare al 31 marzo 2022. La neutralità di Kiev era in ballo nei colloqui di allora e bisogna tenere presente che è questo il principale obiettivo politico di Putin. Almeno secondo l’interpretazione di Gian Micalessin su il Giornale del 19 febbraio 2024.

(Lo zar russo in nome di questo obiettivo) potrebbe rinunciare ad alcuni dei territori conquistati e già annessi alla Federazione russa con i referendum, mai internazionalmente riconosciuti, del settembre 2022. Ma cosa significa neutralità? Nella visione del Cremlino è lo status mantenuto dalla Finlandia fino alla recente adesione alla NATO. Kiev per ottenere la pace dovrebbe rinunciare sia all’adesione all’Alleanza Atlantica – inserita come obiettivo nella Costituzione fin dal febbraio 2019 – sia ad armi e aiuti occidentali “

Si chiede Micalessin se pensare a una capitolazione di Kiev può essere realistico. “La risposta oggi è no. Una vittoria di Donald Trump alle presidenziali di novembre potrebbe però ribaltare gli scenari. Il fallimento della controffensiva della scorsa estate, la sostituzione del popolarissimo capo di stato maggiore e la disfatta di Avdiivka stanno mettendo a dura prova la popolarità di Zelensky. Lo zar però è convinto che un negoziato possa regalargli la vittoria anche con Joe Biden alla Casa Bianca.  Nella sua visione il vero asso nella manica è il logoramento dell’esercito di Kiev.”.

L’intervista di Putin a Pavel Zarubin: “Per noi la guerra in Ucraina è esistenziale”

La nuova disponibilità di Putin a dialogare con il governo di Kiev va sempre inserita nel ragionamento più complessivo sulla guerra in Ucraina: su questo fronte non sono previsti cedimenti ed il messaggio deve arrivare semza equivoci al mondo ma anche alla sua opinione pubblica. È questo il senso dell’intervista, di cui riferisce l’ANSA, rilasciata dal leader russo al giornalista della Compagnia televisiva e radiofonica panrussa Pavel Zarubin. "La situazione sull'Ucraina è una questione di vita o di morte per la Russia, mentre all'Occidente non importa poi così tanto, si tratta solo di migliorare la posizione tattica".

Commentando la recente intervista che ha avuto con l'ex anchorman Tucker Carlson, Putin ha poi aggiunto che "gli americani faranno fatica a comprendere i riferimenti storici contenuti" in essa. "Ho fornito loro solo la teoria più popolare che riguarda l'origine normanna, e penso che per l'ascoltatore e lo spettatore occidentale non sia stato facile. Soprattutto per gli americani", ha detto il presidente.

(Si vada su: https://www.ansa.it/amp/sito/notizie/mondo/2024/02/18/putin-lucraina-e-per-noi-una-questione-di-vita-o-di-morte_26e80e01-d206-4dfb-aeb3-6be25131bef9.html )

Se non lo si fosse capito, bisogna quindi stamparsi nel cervello che l’autocrate al Cremlino si sta giocando il tutto e per tutto e non è disposto a cedere, se non su aspetti secondari. La vita di migliaia di soldati russi al fronte è sul piatto della scommessa. La conquista di Avdiivka dimostra che l’esercito russo ha ancora la capacità di avanzare in territorio nemico, anche pagando un prezzo molto alto.  Putin ha fatto intendere di poter sfruttare quella che appare la più importante arma strategica nelle sue mani: il tempo. Stati Uniti e UE non sembrano in grado di fornire a Kiev le armi e le munizioni necessarie a riprendere la controffensiva. E i fondi bloccati al Congresso USA ne sono la dimostrazione più lampante. In queste condizioni l’offerta di dialogo da parte di Putin ha questo significato: dovete accettare le mie condizioni, vi conviene!

Ora le difese ucraine rischiano di arretrare di altri 20 kilometri 

Sempre su il Giornale Fausto Biloslavo ci racconta la situazione del fronte.

La roccaforte più avanzata degli ucraini nel Donbass (Avdiivka – ndr) dopo dieci anni è stata occupata dai russi. E sarebbero riusciti a spingersi anche più avanti, per 8 chilometri, verso i bordi della tenaglia che rischiava di chiudere le truppe di Kiev in una mortale sacca. Di Avdiivka, 32mila anime prima dell'invasione, restano solo macerie e poche centinaia di civili che non hanno voluto farsi evacuare con gli autobus gialli. (…) Da quattro mesi le truppe dello Zar attaccavano ad ondate «avanzando sui loro morti e con un vantaggio nei colpi di artiglieria di 10 a 1» ha dichiarato il generale Oleksandr Tarnavskyi, comandante del fronte sud ucraino. Nel carnaio i russi avrebbero perso 47mila uomini per offrire a Vladimir Putin, una vittoria alla vigilia delle elezioni già scritte che lo confermeranno al Cremlino.  La brigata 110 si è sacrificata fino all'ultimo nella difesa della città, ma al crollo del forte Zenit, sul fianco sud, non c'è stato più nulla da fare se non evitare di finire stritolati nella sacca. Molti ucraini sono stati fatti prigionieri. Fra gli uomini che hanno dato il sangue per Avdiivka serpeggia la rabbia per un ordine che avrebbe dovuto arrivare due settimane prima rendendo la ritirata ordinata e con meno perdite. I racconti della ultime ore sono di un «si salvi chi può». (...) Avdiivka, a soli sei chilometri da Donetsk, era strategica perché gli ucraini riuscivano a colpire la «capitale» dei filorussi nel Donbass. La nuova linea di difesa rischia, per poter reggere, di doversi spostare fino a venti chilometri indietro. Per ora gli ucraini resistono a metà strada, ma i russi stanno attaccando da dicembre su sette direttrici. A cominciare da Est sull'asse Kupyansk-Svatove-Kreminna. E sugli oltre 900 chilometri della linea del fronte gli ucraini, che devono razionare le munizioni, riescono a tirare 2mila cannonate al giorno rispetto alle 10mila dei russi”.

PARTE 2 - INTANTO L’EUROPA SI INDIRIZZA VERSO L’ECONOMIA DI GUERRA

La difesa comune UE: nel passaggio a una “economia di guerra”, un Recovery delle armi che vale 100 miliardi,

Il Piano di investimenti militari per la nuova Commissione UE, che segnerà il passaggio della priorità dal Green Deal alla Difesa comune, sarà finanziato con gli eurobond e sarà sostenuta da una centrale unica di acquisti.

È da segnalare che la Von der Leyen, durante la Conferenza sulla sicurezza di Monaco, abbia confidato che, se nella prossima legislatura che emergerà dal voto di giugno dovesse tornare a presiedere la Commissione, vorrebbe avere un Commissario alla Difesa, che attualmente non c’è.

Su il Messaggero del 19 febbraio 2024 l’articolo a firma di Gabriele Rosana, titolo: “Un recovery delle armi che vale 100 miliardi”, ci dà le seguenti notizie:

La direzione generale della Commissione (una sorta di dipartimento ministeriale) che si occupa di difesa esiste da tre anni, ma finora la responsabilità politica è stata demandata al titolare dell’Industria, il francese Thierry Breton. Che, a inizio gennaio, aveva fatto di conto, indicando che l’UE dovrebbe stanziare almeno 100 miliardi per i sussidi alle aziende delle armi. Tra una settimana, il 27 febbraio, (…) l’EDIP sarà chiamato a mobilitare gli investimenti comuni. A cominciare proprio da un Recovery Plan in miniatura (per EDIP Breton aveva ipotizzato 3 miliardi) facendo leva (,,,) sugli eurobond per la difesa che nelle capitali trovano da tempo più di uno sponsor (ad esempio Macron)”.

In sostanza, il focus di lavoro per la difesa UE rimane economico: al di là degli annunci, avventurarsi in un piano che vada troppo avanti nella creazione di un esercito comune rischierebbe di andare contro i Trattati che assegnano la responsabilità della politica militare ai singoli Paesi e il coordinamento all’Alto rappresentante, oggi Borrell. Ma far emergere la dimensione industriale della difesa sarebbe un primo passo da non sottovalutare.

Gli Stati europei acquistano il 70% degli equipaggiamenti militari dagli Stati Uniti, che producono senza sosta e fanno la parte del leone nelle classifiche internazionali dell’industria bellica. Nella sua strategia per incentivare la base industriale UE, Bruxelles tenta ora di potenziare, rendendoli strutturali, suoi propri strumenti di investimento: EDIRPA e ASAP. Anche la BEI sarà chiamata a svolgere un ruolo di primo piano nell’erogazione di incentivi alle imprese: i ministri delle finanze ne parleranno al prossimo ECOFIN informale nella città belga di Gand.

Per andare più in dettaglio, l’analisi del Piano la troviamo sul sito EURACTIV a cura di Aurélie Pugnet. La tesi è la seguente: “Con il suo atteso programma per l’industria della difesa, la Commissione europea intende utilizzare il bilancio del blocco per ristrutturare la base industriale della difesa, mostrando la volontà di aumentare la produzione sostenibile in tutto il continente e di diventare più indipendente da altri fornitori come gli Stati Uniti”.

La premessa è la prossima presentazione della Strategia dell’Industria Europea della Difesa (EDIS) e del suo programma di accompagnamento (EDIP) nelle settimane in arrivo.

Negli ultimi anni l’Unione europea ha istituito una serie di strumenti e fondi, dal finanziamento della ricerca al quasi raddoppio della produzione di munizioni in tutto il blocco grazie alla mappatura delle capacità e dell’organizzazione.

Tuttavia, questi programmi innovativi hanno affrontato le preoccupazioni urgenti derivanti dalla guerra in Ucraina e non hanno tenuto conto della necessità per la base tecnologica e industriale della difesa europea di aumentare la capacità di produzione in modo sostenibile e di essere preparata per il lungo periodo.

I funzionari dell’UE e della NATO hanno avvertito che la guerra in Ucraina sta diventando una guerra di magazzini, dove la capacità produttiva sarà fondamentale.

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha mostrato il suo interesse per la proposta in un’intervista al Financial Times, dopo mesi di esitazione a dare il via libera alla strategia – la presidente aveva evitato di annunciarla nel suo discorso sullo stato dell’Unione a settembre, menzionandola solo nelle risposte alle domande dei parlamentari.

La sua presa di posizione su questo tema delicato è ora a favore di un ruolo più incisivo dell’UE nel sostenere finanziariamente l’industria della difesa nel passaggio da un’economia di pace a un’economia di guerra, consolidando al contempo il mercato unico della difesa.

Mentre l’industria della difesa europea sta ancora lottando per proporre modi per produrre rapidamente attrezzature che rispondano alle esigenze dei Paesi dell’UE e dell’Ucraina, gli Stati Uniti hanno industrie che lavorano 24 ore su 24, con opzioni facili da acquistare sul mercato.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, due anni fa, circa il 70% degli acquisti europei sono stati effettuati negli Stati Uniti.

Ma le aziende europee si sono opposte all’investimento massiccio in nuove linee di produzione, poiché i governi richiedevano tempo per firmare i contratti, ostacolando la costituzione di scorte e la consegna rapida di attrezzature all’Ucraina”.

Secondo Pugnet di Euractiv, l’Europa starebbe finalmente voltando pagina, lanciando una vera e propria politica per l’industria della difesa, per risolvere il problema della adeguata disponibilità produttiva  in termini di tempo e di volume, diventata una ineludibile questione di competitività e di sicurezza.

Alcuni degli elementi che la Commissione intende presentare sono già noti, come ad esempio un quadro normativo che consenta ordini con priorità e un’esenzione dall’IVA per i consorzi di Stati membri che effettuano acquisti congiunti in Europa.

Si prevede inoltre che la Commissione crei un’intera gamma di strumenti.

Thierry Breton, commissario UE responsabile della politica industriale, il mese scorso ha affermato che la Commissione potrebbe svolgere un ruolo nel derisking degli investimenti delle aziende nella produzione e nel ramp-up per rendere più rapidi i processi di produzione e di approvvigionamento..

Nel tentativo di evitare un’altra deindustrializzazione dell’Europa come quella avvenuta dopo la Guerra Fredda, altri strumenti chiave evidenziati dalle fonti industriali coinvolte nella consultazione con la Commissione includono modi per mantenere le fabbriche “sempre calde” e un meccanismo di vendita militare europeo basato sul modello militare estero degli Stati Uniti e sui sistemi di proprietà congiunta.

Anche l’industria ucraina potrebbe essere strettamente legata al progetto europeo, come suggerito dalla Von der Leyen in autunno, mentre i programmi di difesa dell’UE sono solitamente riservati ai Paesi dell’Unione e alla Norvegia.

La cooperazione tra il blocco e l’industria ucraina è stata presentata come un aspetto importante dell’impegno per la sicurezza del Paese devastato dalla guerra, secondo una nota interna del servizio diplomatico dell’UE visionata da Euractiv.

Il mese scorso, Breton ha dichiarato che l’UE ha bisogno di 100 miliardi di euro per la difesa e di 3 miliardi di euro per l’EDIP, ma il bilancio del blocco non dispone di tali risorse.

È quindi probabile che ciò aumenti la pressione sulla Banca europea per gli investimenti (BEI), il braccio creditizio del blocco, affinché diventi molto più attiva nel finanziamento di progetti di difesa, sfruttando il suo rating di investimento AAA per ottenere tassi preferenziali sui mercati finanziari, che finora ha rifiutato.

I ministri delle Finanze dell’UE che si riuniranno a Gand, in Belgio, la prossima settimana discuteranno la modifica della politica di prestito della BEI, dopo che a dicembre i leader dell’UE hanno chiesto alla banca di essere maggiormente coinvolta nel settore della difesa.

(Si vada al link: https://euractiv.it/section/mondo/news/il-nuovo-programma-di-difesa-dellue-mira-a-rinnovare-la-strategia-industriale-del-blocco/)

Francia e Germania al top della produzione militare in Europa

Michele Di Branco su Il Messaggero del 19 febbraio 2024 ci dà i numeri sulla spesa militare e gli investimenti militari dell’Europa: 350 sono i miliardi investiti complessivamente dai 27 Paesi membri della UE per rinforzare o ammodernare i propri armamenti. Scusate se è poco!

L’inizio di una difesa comune anche nucleare?

“L’inizio di una difesa comune”. È il titolo di un commento di Michele Valensise che troviamo su “la Repubblica del 19 gennaio 2024, che definisce “storica” l’intesa bilaterale tra Germania e Ucraina (10 anni di forniture militari e aiuti economici), analoga a quella già sottoscritta con la Francia, come con l’UK a gennaio.

È importante che, da parte di Valensise, venga collocato in questo contesto antirusso e di affiancamento dell’Ucraina la discussione tra Parigi e Berlino su una deterrenza nucleare europea, nel momento in cui sorgono dubbi sull’”ombrello americano”.

Nel cambiamento epocale — indipendentemente dalle bordate di Trump, che allarmano più che altrove — Berlino potrebbe essere pronta a ragionare su una partecipazione operativa e finanziaria alla deterrenza francese (290 testate, a fronte delle 100 Usa in Europa).Con un paradosso della storia, proprio dalla Francia, che settanta anni fa affondò la Comunità europea di difesa, oggi potrebbe svilupparsi così un embrione di difesa comune (e il Regno Unito?) dal capitolo nucleare, il più complesso e speriamo tutti il più teorico.

Intanto, il passo essenziale resta quello di un’integrazione di programmi e approvvigionamenti europei, per tutelarsi su una scena in cui gli Stati Uniti saranno comunque meno presenti e la Russia rischia di essere più minacciosa. Sarebbe un passo più importante del Commissario Ue alla Difesa, prospettato da Ursula von der Leyen, soggetto ai limiti del metodo intergovernativo in mancanza di una politica di difesa comune”.

PARTE 3 –IL PATTO ROMA – KIEV. L’ITALIA GARANTE DELLA SICUREZZA UCRAINA COME FRANCIA, GERMANIA, REGNO UNITO

Francesco Bechis, su Il Messaggero del 19 febbraio 2024, rivela un retroscena nell’articolo dal titolo: “Italia con Kiev per 10 anni”.

“Un Patto prima di tutto politico. E solo poi operativo. L’Italia resterà a fianco dell’Ucraina per 10 anni. Pronta a fornirle aito “entro 24 ore” se in futuro Putin dovesse aggredirla un’altra volta, accecato da nuove smanie imperiali. È questo il regalo che Giorgia Meloni è pronta a consegnare nelle mani del presidente Ucraino Zelensky.  Di persona, a Kiev, con una visita imminente, e tenuta top secret per ragioni di sicurezza: forse già nei prossimi giorni.

All’accordo bilaterale sulla sicurezza lavorano da mesi le rispettive diplomazie. E’ un testo molto simile a quello firmato nelle scorse settimane con Zelensky da tre leader del G7: Scholz, Sunak e Macron. Ora tocca alla Meloni e forse il regalo avverrà il 24 febbraio, quando la leader del governo presiederà in videoconferenza una riunione del G7.

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PRIMA PUNTATA DEL 2024.

NON ABBANDONARSI AL FATALISMO DELLA GUERRA MONDIALE INEVITABILE.

MA ANCORA IN ITALIA CHI MANIFESTA PER LA PACE SULL'INVIO DELLE ARMI TACE

Puntata suddivisa in due parti:

Parte I
ANALISI DI ALFONSO NAVARRA

Parte II
ESTRATTI DA LIMES - EDITORIALE DI LUCIO CARACCIOLO

Parte III

ITALIA SENZA MARE - Longform da La REPUBBLICA 18-02-2024

di Carlo Bonini (coordinamento editoriale), di Lucio Caracciolo. Mappe di Laura Canali. Coordinamento multimediale Laura Pertici.

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DOVE ERAVAMO RIMASTI?

ANALISI DI ALFONSO NAVARRA (18 febbraio 2024)

Il 2024, l’anno delle grandi elezioni in tutto il mondo, è iniziato con il voto che a Taiwan ha fatto eleggere presidente il candidato inviso a Pechino, nonostante le pressioni minacciose del Partito Comunista Cinese.

In Ucraina, la “contro-offensiva” dell’esercito di Kiev sembra tutt’altro che riuscita, e comincia ad affiorare il dubbio che il supporto militare americano ed occidentale possano addirittura venire meno.

La fede nella vittoria finale di Zelensky comincia a vacillare (si prospettano persino scenari di collasso militare dell’Ucraina) ed in ogni caso è chiaro ormai a tutti che essa sarà comunque ottenuta ad un prezzo inaccettabile.

Quel che resterà dell’Ucraina e degli ucraini, vittoriosi militarmente o meno, probabilmente – come si è accennato -addirittura sconfitti, dovrà affrontare un enorme progetto di ricostruzione su un mare di macerie. Un dispaccio dell’AGI del 16 febbraio 2024 riferisce di un rapporto della Banca Mondiale, ripresa come pubblicazione dal governo ucraino, dalla Commissione UE e dall’ONU: stante i danni subiti, la ricostruzione dell’Ucraina verrebbe a costare 500 miliardi di dollari in dieci anni. (Ma siamo a conoscenza di altre stime più pessimistiche, sui 1.000 miliardi di danni, al momento).

Chi dovrebbe pagare la ricostruzione? Il rapporto suggerisce la confisca dei beni russi congelati in Occidente.  (La notizia al link: ‎https://www.agi.it/estero/news/2024-02-16/quanto-costa-ricostruire-ucraina-25312769/)

Nelle stesse ore in cui l’oppositore di Putin si spegneva nella prigione siberiana, la bandiera russa ha sventolato sulla città ucraina di Avddijvka.

Proprio quando in Occidente cominciavano a manifestarsi i sintomi di quella “stanchezza” confessata da Giorgia Meloni ai comici russi che la burlavano nella qualità di “ambasciatori del Katonga” (secondo la brillante citazione totoista di Marco Travaglio), Hamas (finanziato da Qatar e Iran, quest’ultimo in ottimi rapporti con il Cremlino) ha creato una utile distrazione dal fronte europeo con l’incursione del 7 ottobre e la guerra scatenata a Gaza; e Trump ha dichiarato che, quando sarà presidente, la Russia potrà fare quello che vuole ai Paesi europei della NATO, se risultano morosi rispetto allo standard del 2% del PIL, quindi non versano la loro quota per “difendersi”.

La morte di Navalny rinfocola l’inimicizia contro il regime russo

La morte dell’oppositore Navalny nella prigione in Siberia dove era stato rinchiuso (16 febbraio 2034) desta indignazione in tutto il mondo e mette Putin sotto accusa. Parlare di compromessi con la Russia diventa, al momento, più difficile. L’occasione può essere colta dai governi occidentali, che spingono Zelensky a “fare l’eroe”, per superare la “stanchezza” che li affligge per un conflitto sull’Ucraina ormai alla vigilia del secondo anniversario (l’invasione russa è del 22 febbraio 2022).

Il Corriere della sera del 17 febbraio 2024, con l’articolo di Giuseppe Sarcina, fa tirare queste somme al presidente USA Joe Biden: “Non sono sorpreso ma sono furioso. Non ci sono dubbi che Putin e i delinquenti di cui si circonda siano i responsabili della morte di Navalny”. Il coraggio dell'oppositore russo sarebbe oggetto della ammirazione presidenziale: “Un uomo che poteva fuggire all’estero, ma che ha voluto tornare in Russia”. Biden, secondo Sarcina, sostiene che “l’ennesima prova della brutalità di Putin deve spingere il Congresso americano ad approvare al più presto il pacchetto di aiuti da 60 miliardi di dollari destinati a Kiev”. Con un messaggio indirizzato a Mosca (che guarda alle dichiarazioni di Trump – ndr): “Non si facciano illusioni, difenderemo ogni centimetro del territorio NATO”.

A Monaco è in corso la Conferenza sulla sicurezza, cominciata il 16 febbraio nella città tedesca.

La vicepresidente USA Kamala Harris, secondo Sarcina, avrebbe così avvertito gli europei: “Qui non è in gioco solo la libertà dell’Ucraina. Se non viene fermato, Putin attaccherà l’intera Europa”.

Il segretario generale dell’Onu António Guterres chiede, attraverso un portavoce, “l’apertura di un’inchiesta piena, credibile e trasparente”.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky non ha dubbi: «Navalny è stato ucciso e Putin dovrà rispondere dei suoi crimini».

Lo stato d’animo è condiviso dai vertici della UE. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen osserva: «Putin teme il dissenso del suo stesso popolo. Quello che è accaduto oggi è un triste promemoria: ecco che cos’è il regime di Putin. Uniamoci nella lotta per salvaguardare la libertà e la sicurezza di tutti coloro che osano opporsi all'autocrazia».

(Si vada al link: https://www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera/20240217/281603835387325).

Lo scenario di “fine guerra” in Ucraina sembra allontanarsi. Ma il tempo che passa espone ad una crisi di coerenza nel sostegno a Kiev, negli USA evidentissima, dovendo fare i conti con le elezioni presidenziali di novembre: l’opinione pubblica a stelle e strisce ha tutt’altro per la testa, i problemi economici, l’immigrazione, e Donald Trump sta volando nei consensi.

Con gli aiuti statunitensi bloccati il sostegno militare all’Ucraina rallenta

Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha ammonito che l’impasse del Congresso USA sulla nuova assistenza all’Ucraina “ha già avuto conseguenze sul campo di battaglia”.

Per settimane i legislatori democratici e repubblicani sono stati impegnati in un'aspra battaglia legislativa su una proposta di legge che avrebbe sbloccato denaro fresco per Kiev, che ha un disperato bisogno di armi avanzate per rifornire le sue scorte esaurite e affrontare l'avanzata delle truppe russe di invasione.

L'ultimo pacchetto approvato dal Senato prevede 60 miliardi di dollari (55,7 miliardi di euro) per il sostegno militare e finanziario all'Ucraina, 14 miliardi di dollari per Israele, 9,2 miliardi di dollari per gli aiuti umanitari, compresi ulteriori aiuti per la Striscia di Gaza, e 8 miliardi di dollari per la regione indo-pacifica.

‎Ma non è detto che il sostegno bipartisan in Senato sia replicato alla Camera dei Rappresentanti, dove i repubblicani della linea dura, galvanizzati dalla speranza di un ritorno di Trump alla Casa Bianca, hanno giurato di bloccare la misura.

Lo speaker repubblicano Mike Johnson ha dichiarato mercoledì che la Camera non avrebbe avuto "fretta" di portare avanti il pacchetto da 95,2 miliardi di dollari, che non contiene fondi per il controllo delle frontiere e la gestione dell'immigrazione, una priorità irrinunciabile per il suo partito durante i negoziati.

(Per la notizia si vada al link: https://it.euronews.com/my-europe/2024/02/15/lo-stallo-degli-stati-uniti-sugli-aiuti-allucraina-sta-gia-avendo-conseguenze-sul-campo-di ).

L’Unione europea ha dovuto superare il blocco ungherese per varare gli aiuti finanziari e militari, garantendo un flusso di 50 nuovi miliardi di euro. L’istituto tedesco di Kiel, che attraverso l’Ukraine Support Tracker monitora il flusso di aiuti verso l’Ucraina dall’inizio del conflitto, fa un calcolo che, per sostituire completamente gli aiuti militari statunitensi nel 2024, l’Europa dovrebbe raddoppiare il livello e il ritmo di quelli attuali, una missione praticamente impossibile. Il divario tra gli impegni presi complessivamente tra Bruxelles (144 miliardi di euro) e i fondi stanziati arrivati a Kiev (77 miliardi di euro) rimarrebbe comunque molto ampio.

L’ultimo aggiornamento dell’Ukraine Support Tracker pubblicato a metà febbraio mostra che gli impegni e le consegne di aiuti statunitensi sono sostanzialmente in fase di stallo dalla fine del 2023. Gli aiuti europei, d’altro canto, continuano ad aumentare, sia in termini di impegni che in termini di stanziamenti, con il volume degli aiuti finanziari totali stanziati dall’Unione pari a 34 miliardi di euro, simile a quello degli aiuti militari stanziati, di 35,2 miliardi di euro. Nel periodo tra novembre 2023 e il 15 gennaio 2024 gli aiuti militari promessi sono stati di 9,8 miliardi di euro, mentre nello stesso periodo dell’anno scorso, gli impegni ammontavano a 27 miliardi di euro, di cui 21 miliardi provenivano dagli Stati Uniti.

Il sostegno militare per l’Ucraina continua a provenire principalmente da alcuni grandi donatori come i paesi nordici, la Germania o il Regno Unito, mentre molti altri paesi hanno promesso o fatto poco o nulla. Anche nel settore militare, come in quello esclusivamente finanziario, esiste una grande differenza tra gli aiuti promessi e quelli effettivamente stanziati: Berlino rimane il maggiore donatore europeo con un volume totale di 17,7 miliardi di euro dall’inizio della guerra; il Regno Unito ha recentemente annunciato 2,9 miliardi di euro in nuovi aiuti militari, portando i suoi impegni militari totali a 9,1 miliardi di euro. Secondo i dati dell’Istituto di Kiel, di questa somma sono stati effettivamente stanziati 4,8 miliardi di euro. Germania, Gran Bretagna e Francia sono i paesi che hanno già sottoscritto accordi bilaterali con Kiev per un supporto a lungo termine. Tra i maggiori donatori ci sono anche la Danimarca, che ha promesso fino ad ora 8,4 miliardi di euro in aiuti militari, di cui 4,5 miliardi di euro sono stati stanziati specificatamente.

(Questi dati li si trova al link: https://www.rsi.ch/info/mondo/Aiuti-occidentali-a-Kiev-la-dura-sfida-dei-numeri--2072218.html)

Lo scenario di un collasso militare dell’Ucraina

La “fine guerra” da noi auspicata potrebbe essere anche un portato del crollo militare ucraino, che obbligherebbe il governo di Kiev (non più guidato da Zelensky, ma da un sostituto: ad esempio il popolare generale Zaluzhny, da poco dimissionato dal comando dell’esercito) a discutere rapidamente la famosa “soluzione coreana”. Questo “cessate il fuoco” con la cessione di fatto delle aree conquistate è quello che il Cremlino tenta da 24 mesi e che ora appare possibile rendendo possibile il “cantare vittoria”.

L’esperienza storica insegna che la prima sorgente del collasso che porta alla sconfitta spesso nasce dalle divisioni politiche nelle istituzioni, come accadde alla Germania alla fine della Prima Guerra Mondiale – e oggi il consenso di Zelensky sta cominciando a precipitare.

Le prossime mosse russe punteranno a minare la volontà di lotta e resistenza del popolo ucraino; per questo ci si aspetta che la campagna di raid missilistici contro le città diventerà più massiccia e tornerà a bersagliare soprattutto la produzione di energia elettrica , fermando il lavoro delle fabbriche e il riscaldamento nei mesi gelidi.

Gianluca Di Feo su Repubblica del 18 febbraio 2024, titolo dell’articolo: “La caduta di AvdiJvka fiacca Kiev”, parla della ritirata ucraina dalla città del Donbass come di una “fuga disperata”. “(Le testimonianze descrivono) un “si salvi chi può” pagato a carissimo prezzo dai fanti della Brigata 110, che per quattro mesi hanno lottato nella città del Donbass senza ricevere rimpiazzi.

Il primo effetto della caduta di Avdiivka è soprattutto psicologico e può incidere sulla tenuta del morale dell’intero esercito di Kiev. La rimozione del popolarissimo generale Zaluzhny decisa dal presidente Zelensky ha aperto una crepa tra militari e governo, che adesso potrebbe venire allargata dalla disfatta sul campo.

Le scelte del nuovo comandante in capo, il generale Syrsky, sembrano avere confermato la sua fama di ufficiale più attento alle indicazioni politiche che alle condizioni dei reparti. La ritirata — sottolineano analisti ed ex ufficiali ucraini - doveva essere ordinata due settimane fa, quando la situazione è apparsa insostenibile.

Secondo le voci che rimbalzano di caserma in caserma, Zaluzhny già a inizio febbraio giudicava inutile la resistenza: il volume di fuoco dell’artiglieria e dei cacciabombardieri russi stava radendo al suolo tutto, mentre il blocco degli aiuti americani aveva lasciato le batterie ucraine senza munizioni. Zelensky gli avrebbe imposto di proseguire la lotta e poi lo avrebbe sostituito, con l’unico risultato di abbandonare decine se non centinaia di morti e prigionieri tra le rovine di Avdiivka.

Questo sostiene “radio fante” e i racconti drammatici dei superstiti che sui canali Telegram descrivono l’orrore della battaglia rischiano di dare un colpo fortissimo alla determinazione dell’armata ucraina, incrinando la fiducia nei nuovi vertici militari. I reparti in prima linea sono tutti nella stessa situazione: inferiori ai russi per uomini e proiettili, sempre più stanchi. Dagli Usa non arrivano più armi e il governo ha bloccato la mobilitazione chiesta dal generale Zaluzhny e così i vuoti negli organici impediscono ai veterani di tirare il fiato dopo due anni di combattimenti.

(L’articolo completo di Di Feo su La Repubblica è leggibile al link: ).

La stanchezza della guerra sposta l’interesse verso i problemi interni

Mentre il Cremlino, duro, fermo, inaugura la sua economia di guerra, con un piano di produzione bellica mai visto prima e investimenti carichi di zeri, l’Occidente prova a seguire una tendenza analoga, ma deve fare i conti con la “stanchezza” delle opinioni pubbliche, che fa pendere la bilancia verso altri interessi che non la battaglia di principio sul “diritto internazionale” violato.

L’interesse nazionale più in senso stretto diventa l’automatismo con cui i governi procedono, quando i soldi cominciano a mancare e non si conosce la fine della crisi, che in questo caso è una guerra di puro logoramento, alla vecchia maniera.

La verità è banale: per appoggiare una guerra, che sia difensiva o offensiva, servono i dané, e con essi il consenso di chi li controlla. Una cosa che Joe Biden e i democratici, tanto per citare qualcuno, con ogni evidenza, non hanno i numeri per fare, nelle istituzioni e nella cassa a disposizione. Probabilmente, il sostegno a Kiev in qualche modo andrà avanti, ma il Pentagono che scopre “improvvisamente” di aver fatto male i conti sui fondi residui è anche segno che la campagna elettorale è entrata nel vivo. E c’è da scommettere, la parola "Ucraina. da qui al novembre 2024, sarà pronunciata il meno possibile. Tanto più che un’altra guerra ha occupato il proscenio gettando sullo sfondo quella ucraina: la guerra medio-orientale.

L’incendio acceso da Gaza prelude a un nuovo equilibrio medio-orientale?

In Medio Oriente si è, malauguratamente, acceso un incendio bellico ed il suo spegnimento è molto complicato. Ma non è irrealistica la possibilità che dalla tragedia nasca una sorta di nuovo equilibrio.

Gli USA stanno lavorando per imporre quanto prima ad Israele una tregua umanitaria a Gaza come passo per un obiettivo più di fondo. Nel corso della pausa, Israele, sotto la protezione di Washington benedetta dall’ONU, forzando o scaricando Netanyahu, potrebbe congelare gli insediamenti in Cisgiordania e stipulare finalmente l’accordo sui due Stati, in cambio del riconoscimento diplomatico da parte dell’Arabia Saudita. Hamas a quel punto sarebbe azzerata politicamente (nella migliore delle ipotesi la fazione qatarina dovrebbe liberarsi di quella iraniana confluendo in una unità nazionale palestinese) e svuotata militarmente.

Lo sconfitto effettivo in Medio Oriente sarebbe allora l’Iran degli ayatollah, specie se si riattivasse e prevalesse la rivolta, trasformata in strategia rivoluzionaria, “DONNA – VITA – LIBERTA’.

Questa possibile stabilizzazione in Medio Oriente avrebbe effetti ragguardevoli a livello globale. L’idea di un ordine mondiale fondato sulla forza del diritto più che sul diritto della forza riprenderebbe piede e influenzerebbe tutti gli altri, numerosi e sempre più intrecciati, teatri dei conflitti. La spinta ai compromessi si farebbe più forte nel confronto Russia/Ucraina.  E il cosiddetto Sud Globale potrebbe porsi in modo più costruttivo nella costruzione di un ordine mondiale alternativo al caos crescente.

Allo stesso Trump, imprenditore del caos e della paura, riuscirebbe più difficile vincere presidenziali negli USA.

Un fattore che potrebbe giocare un ruolo di arresto delle derive belliche e di stabilizzatore di equilibri più avanzati potrebbe essere un movimento disarmista e pacifista più intelligente nei suoi comportamenti e non rassegnato alla vittoria del peggio, magari sotto lo scudo di vecchi slogan massimalistici o la distorsione di logiche campiste.

La svogliatezza e la superficialità intellettuale, sia del pacifismo burocratico sia di quello “falcemartellista”, rischiano di essere un grande regalo alle forze della falsa lotta tra democrazie autoritarie e autocrazie più o meno conclamate.

Se ci sentiamo parte dei “buoni”, delle donne e degli uomini di buona volontà, è più che mai il momento di darci dentro, con l’impegno e lo sforzo di innovazione, all’insegna dei gandhiani “esperimenti con la Verità”.

L’Italia reitera con Meloni per la seconda volta il decreto Draghi sugli aiuti militari all’Ucraina

L’8 febbraio 2024 l’Aula della Camera ha definitivamente convertito in legge, con voti 218 favorevoli e 42 contrari (Avs e M5S), il DL 200/2023 che proroga per tutto il 2024 “l’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore dell’Ucraina”

Il provvedimento era stato già votato al Senato il 18 gennaio. L’autorizzazione all’invio di aiuti militari era stata già prorogata, fino al 31 dicembre scorso con un analogo provvedimento del gennaio 2023. L’elenco dei mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari ceduti, gratuitamente, viene definito attraverso Dm del ministro della Difesa, adottati di concerto con i ministri degli Esteri e dell’Economia. I ministri della Difesa e degli Esteri riferiscono alle Camere con cadenza trimestrale sull’evoluzione del conflitto.

Fin dall’inizio del suo mandato la premier Giorgia Meloni ha garantito il massimo della continuità rispetto al governo che l’ha preceduta, quello di Mario Draghi, sulla guerra in Ucraina. Piena adesione, dunque, alla linea occidentale e atlantica, di condanna dell’aggressione russa. L’obiettivo conclamato è consentire all’Ucraina di esercitare il diritto alla legittima difesa e di proteggere la sua popolazione.

I mezzi militari di cui si autorizza la cessione sono elencati in un allegato, «elaborato dallo Stato maggiore della difesa», che è però classificato, e quindi non disponibile. Lo Stato maggiore della difesa viene anche autorizzato ad adottare «le procedure più rapide per assicurare la tempestiva consegna dei mezzi, materiali ed equipaggiamenti».

Dalle prime settimane del conflitto in Ucraina (marzo 2022) l’Italia ha fornito mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari a Kiev attraverso una serie di provvedimenti, presi prima dal governo Draghi (il quinto pacchetto ha avuto il via libera dell’esecutivo quando era dimissionario) e poi, a febbraio 2023, da quello di Meloni. Nei primi decreti, tutti secretati, secondo le indiscrezioni emerse sono stati inviati - oltre a contributi economici - dispositivi di protezione come elmetti e giubbotti, munizioni di diverso calibro, sistemi anticarro (Panzerfaust) e antiaereo (Stinger), mortai, lanciarazzi (Milan), mitragliatrici leggere e pesanti (MG 42/59), mezzi Lince, artiglieria trainata (Fh70) e semoventi (Pzh2000). Escludendo questi ultimi tre elementi, la maggior parte delle forniture inviate non erano più utilizzate dall’esercito italiano.

L’ultimo pacchetto (l’ottavo) di invio di materiali ed equipaggiamenti militari all’Ucraina è stato pubblicato sulla G.U. del 29 dicembre 2023 (D.M. 19 dicembre 2023). Invio arrivato sette mesi dopo il cd. “Settimo pacchetto” di aiuti militari pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 31 maggio 2023. Alcune indicazioni relative al settimo pacchetto sono state fornite dall’esecutivo a fine maggio. In quell’occasione l’elenco degli armamenti è stato illustrato dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, nel corso di un’audizione al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. Come nei pacchetti precedenti, anche in quella circostanza il contenuto del nuovo decreto Ucraina è stato “secretato” e successivamente pubblicato in Gazzetta ufficiale. Quello di fine maggio è stato il secondo provvedimento firmato dal governo Meloni: il primo risaliva a 4 mesi prima. Stando alle indiscrezioni circolate in quei giorni, in quell’occasione sono stati inviati equipaggiamenti per la protezione dal rischio Nbcr: tute, maschere protettive, kit per rendere potabile l’acqua, oltre che le munizioni. Sempre in quei giorni si parlò dell’invio, come già avvenuto in precedenza, di ulteriori veicoli, obici, lanciamissili, mitragliatrici e armi leggere.

(Il Sole 24 Ore dà le notizie al link: https://www.ilsole24ore.com/art/via-libera-definitivo-camera-proroga-decreto-armi-all-ucraina-ecco-aiuti-dell-italia-AFy2pqdC?refresh_ce)

Al solito, a protestare in piazza si sono ritrovati i soli Disarmisti esigenti & partners (WILPF Italia, Per la scuola della Repubblica): “per segnalare all'opinione pubblica la distanza tra il Palazzo e il sentimento maggioritario di contrarietà del popolo italiano al riarmo del nostro Paese e al coinvolgimento nella guerra in Ucraina".

Nel presidio, e con una lettera ai deputati, abbiamo denunciato una violazione della Costituzione commessa con il decreto contestato. Il Parlamento, con questo decreto, viene scavalcato attraverso due modalità: 1) i pacchetti di armi spedite attraverso semplici atti amministrativi, i dpcm; 2) la segretezza dei materiali spediti, portati a conoscenza solo del COPASIR.

Abbiamo indirizzato una lettera ai deputati proponendo loro di bocciare in aula il decreto 200/2023.

Attraverso questa decisione può avere slancio e possibilità la soluzione politica e non militare della guerra: si potrebbero avviare processi e percorsi di costruzione di condizioni di sicurezza e democrazia per l’Europa intera.

E segnaliamo anche ai deputati che, in caso il decreto passasse, ci sarebbero possibilità di sollevare l'eccezione di incostituzionalità per violazione dei poteri del Parlamento, sia direttamente contro la norma, sia appoggiando un ricorso al TAR del Lazio che la Lega obiettori di coscienza, soggetto associativo statutariamente interessato alla pace, sta predisponendo contro il prossimo dpcm da esso abilitato.

Le istituzioni italiane ed europee possono scegliere la via del disarmo e della pace ed è questo che vi chiediamo, con preoccupazione e determinazione, di fare: oggi, innanzitutto; e con eventuali scelte concrete che possano ribaltare gli errori di oggi”.

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Parte II

LIMES N. 1/2024 - STIAMO PERDENDO LA GUERRA

Medio Oriente e Ucraina in fiamme

Nella Guerra Grande che si allarga l’Italia non conta ma paga il conto

Editoriale di Lucio Caracciolo: Cronache dal Lago Vittoria

(...) Quest’anno capiremo se il conflitto ucraino verrà sedato o deraglierà. Difficile possa procedere linearmente a lungo. La guerra d’attrito che Russia e Occidente hanno parallelamente imposto all’Ucraina per opposti ma convergenti motivi sta esaurendo le risorse umane e materiali del paese aggredito. Mentre è aperta la caccia ai suoi residui tesori.  

Per Putin, umiliato dalla Caporetto del fallito assalto a Kiev, la drastica ma provvisoria riduzione delle ambizioni – scopo dell’operazione resta ristabilire l’Ucraina cuscinetto se non frontiera occidentale dell’impero – impone pazienza. Il Cremlino ha scommesso sulla progressiva distrazione dell’Occidente (fatto), sulla tenuta del complesso militar-industriale russo (altro fatto) e sul patriottismo esaltato nella propaganda che vuole la Santa Russia antemurale dei valori tradizionali contro l’Occidente wokista (funziona ma non troppo). Quanto può reggere questo schema?    

Per Biden e per gli apparati che oggi in suo nome cercano di evitare che l’America sbandi e domani si dedicheranno a sabotare l’eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca, si tratta di s!ancare la Russia (fallito, per ora) tenendo in piedi la resistenza ucraina a costo di dissanguarla (fatto) e con essa la facciata dell’unità atlantica (nessuna vernice può simularla).

Gli strateghi di Washington si dividono fra chi vorrebbe negoziare con i russi una lunga tregua sporca, sul modello coreano – possibilmente prima che salti l’originale – e chi è disposto a sacrificare l’ultimo ucraino per tenere la Russia sotto pressione, nella speranza che il regime imploda. Il principio condiviso da quasi tutti è che in ogni caso non si deve fare la guerra alla Russia. Per quello ci sono gli ucraini. 

Siamo alla guerra per doppia procura, russa e americana. Putin ordina di martellare gli ucraini perché America intenda il messaggio subliminale che l’intelligence moscovita sussurra: «Ma davvero volete che la Cina confini con la Nato?» . Gli americani cercano a qualsiasi costo (ucraino) di evitare il collasso di Kiev. Fino a rischiare la desertificazione del paese di cui si ergono protettori ma che a guerra finita subappalteranno agli europei perché coprano i costi della ricostruzione. E a mettere nel conto la sostituzione di Zelens’kyj con il generale Zalužnyj, popolare capo delle Forze armate quindi suo potenziale successore, o con chiunque altro sottoscriva la mascherata coreana. 

Al festival dei doppi anzi multipli giochi concorrono gli europei, che fingono di aprire a Kiev le porte dell’Ue mentre prendono tempo sugli aiuti finanziari e militari, anche per obiettiva carenza di risorse. A Bruxelles hanno calcolato in 186 miliardi gli aiuti che Kiev riceverebbe in sette anni dalle casse comunitarie in caso di accessione. Salirebbero a 256,8 in caso di allargamento anche a Moldova, Georgia e ai sei Stati dei Balcani occidentali in coda davanti alla cassa dell’Unione Europea. 

Per noi italiani ogni giorno che passa aggrava il dilemma: come impedire che l’aggressione russa sia premiata senza che per raggiungere questo scopo si distrugga totalmente l’Ucraina e si destabilizzi l’Europa? Se la guerra d’attrito perdurasse, avremmo a che fare con un enorme buco nero al confine con la cortina d’acciaio antirussa, vigilata dalle avanguardie atlantiche del Nord-Est. Oltre Trieste e le coste adriatiche dovremmo convivere con la frastagliatissima costellazione dei Grandi Balcani, incluso ciò che dell’Ucraina resterà, a cominciare dalla quantità di armi inviate a Kiev e poi disperse, di cui anche gli americani hanno perso traccia.

(…) Il 7 ottobre non deriva dal 24 febbraio, ma fa rima. Conferma che l’introversione americana sollecita le sfide all’Occidente diviso e gli opportunismi di chi profitta del caos per allargarsi. È il caso dell’Iran. La dimensione strategica del pogrom di Hamas dentro lo Stato ebraico infiamma la sfida Iran-Stati Uniti-Israele. La partita si gioca nel Grande Medio Oriente.

Si estende dall’intersezione fra Mar Nero, Caspio e Caucaso, crocevia imperiali russo, turco e persiano, verso est fino a Pakistan e Afghanistan, verso ovest fino al Medioceano orientale esteso al Mar Rosso, all’Arabico e al Golfo Persico, via stretti di Suez, Båb al-Mandab e Hormuz. L’occhio italiano attento ai propri destini vi vedrà minacciati gli interessi A (Medioceano libero e aperto), B (evitare la collisione con Caoslandia) e D (stabilizzazione dell’estero vicino). Confermandosi nell’urgenza di C (Euroquad), nucleo occidental-medioceanico, minimo comune denominatore per farsi valere nella mischia in dilatazione incontrollata.  

Il futuro dell’area – discettare di regione significa non coglierne l’entropia –dipende dagli esiti dello scontro fra la coppia Stati Uniti-Israele e l’Iran, che si appoggia a clienti scelti.

Obiettivo americano e israeliano: contenere l’espansione dell’impero persiano e vietargli con ogni mezzo l’accesso alla Bomba.

Sogno iraniano: costringere gli Stati Uniti a ritirarsi sulla linea Egitto-Cipro e isolare Israele. Non distruggerlo: è nemico perfetto, utile a legittimare l’«asse della resistenza», architrave della propria sfera d’influenza fra Afghanistan occidentale e Levante, con clienti arabi sia sciiti che sunniti. Intanto la Turchia s’afferma peso determinante, pronta a gettarlo su questo o quel piatto della bilancia, mentre sauditi e petromonarchi del Golfo si adattano a ogni equilibrismo pur di non finire schiacciati da contendenti di superiore taglia.

La Russia gode della «distrazione» americana, che lascia l’Ucraina in condizioni disperate. La Cina, che a differenza dell’America dalla regione estrae risorse energetiche essenziali e vi sviluppa gli scali delle vie marittime della seta, si ostenta (dis)onesto sensale, allenamento di muscoli diplomatici in vista del possibile futuro egemonico.   

In Medio Oriente Washington si trova quindi al classico bivio: accorciare i fronti, ritirandosi intanto da Iraq e Siria dove è facile bersaglio delle milizie pro Iran, a rischio di aggravare la crisi di Israele, facilitare la penetrazione della Russia e l’influenza della Cina. Oppure rientrarvi in stile agguerrito, ammettendo il fallimento del graduale disingaggio travestito con il paradosso della «guida da dietro», postulato dopo i disastri della «guerra al terrore» in Afghanistan e in Iraq. In tal caso la sovraestensione a stelle e strisce si svelerebbe mostruosa: guerra calda contro la Russia, tiepida virante al bollente contro l’Iran, fredda ma decisiva contro la Cina – per tacere della Corea del Nord. Impegni di intensità militare inversamente proporzionale alle vaghe priorità strategiche correnti a Washington. Mentre l’unica frontiera che interessa davvero il pubblico americano è quella del Rio Grande, su cui forse si deciderà la corsa alla Casa Bianca.  

Non bastasse, l’asse con Israele è incrinato. In superficie, perché Biden considera Netanyahu nemico personale in casa propria: uno dei capi del Partito repubblicano, oltre che il più disastroso primo ministro nella storia dello Stato ebraico. In profondità, causa la divaricazione fra strategie e tattiche di una coppia in crisi di nervi. Washington s’illudeva di poter gestire il Medio Oriente da remoto, contando sull’intesa fra Israele – parente più che alleato – e Golfo a regia saudita – serpenti non parenti. L’attacco di Hamas a Israele e la reazione di Gerusalemme, sorda ai richiami dell’amministrazione americana – «non ripetete i nostri errori», ovvero niente «guerra al terrorismo» – hanno fatto saltare il banco. Risultato: più caos in Caoslandia. (…)

L’Italia conta molto poco in uno spazio che l’aveva vista influente fino al primoNovecento, poi anche durante la guerra fredda. Sarà il caso di riapprendere qualche lezione dimenticata dei nostri avi levantini, capaci di intrecciare oblique relazioni con i poteri locali, più o meno ottomani. Per esempio: economia e commercio non sono fini in sé ma mezzi necessari per acquistare peso geopolitico, che a sua volta apre nuovi mercati. Obiettivo strategico: contribuire a scongiurare lo scontro di civiltà tra Occidente e Oriente, del quale saremmo tra le prime vittime. (…)  

Non sappiamo quanto Hamås, ovvero la sua ala militare, avesse calcolato le conseguenze dell’attacco ai kibbutzim e alle postazioni militari israeliane intorno alla Striscia. Ma la ferocia di quella strage totalmente inatttesa ha prodotto in Israele uno shock tale da farlo ricadere nella trappola di Gaza, da cui si era emancipato nel 2005 pensando di soffocare la questione palestinese sotto eterna naftalina. Irridendo gli avvertimenti americani e di parte dei vertici militari, Netanyahu ha scatenato la punizione collettiva dei gaziani, assimilati a Hamas, bollati «animali umani» dal ministro della Difesa Yoav Gallant 20. Anche un rivelatore dello sconcerto dei dirigenti israeliani, che non immaginavano i terroristi palestinesi tecnicamente capaci di simile operazione. Come spiega a Limes il generale israeliano Giora Eiland, la coalizione di destra e ultradestra al governo ha inferto a Israele un grave danno d’immagine e di credibilità lanciandosi nella durissima rappresaglia dentro Gaza invece di limitarsi al controllo del corridoio Philadelphi e a isolare la Striscia per costringere il nemico alla resa.

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https://www.repubblica.it/esteri/2024/02/18/news/houthi_mar_rosso_usa_iran_conseguenze_italia-422140940/?ref=RHLF-BG-P15-S1-T1

Parte III

La REPUBBLICA 18 febbraio 2024

ITALIA SENZA MARE 

Sono passati quasi sei milioni di anni da quando per cause naturali il Mar Mediterraneo virò in lago salato, con vaste zone aride e conche asciutte ben sotto il livello degli oceani. Alcuni geologi pronosticano che in un futuro altrettanto lontano un nuovo disseccamento riporti il nostro bacino al sinistro aspetto di allora. Temiamo di non poterne essere testimoni. Siamo invece abbastanza convinti che a fattori geofisici costanti il Mediterraneo rischi di scadere a laguna geopolitica per la carente prospettiva e manutenzione strategica di chi vi si affaccia. Questa meravigliosa placenta non è per sempre.

L’Italia è quasi isola esposta per ottomila chilometri al mare da cui importiamo le materie prime che non abbiamo e con cui esportiamo le merci che sostengono la nostra economia. La Penisola prospera finché il Mediterraneo è libero e aperto, soffoca se scolora in campo di competizione o peggio di battaglia fra potenze avverse. In questo tempo di Guerra Grande diffusa fra Europa, Africa e Asia, continenti tutti afferenti al Mediterraneo, la seconda ipotesi è vicina a compiersi, pur se noi stoicamente ci sforziamo di non vederla. Per una ragione generale e una specifica. La prima: veniamo da tre beate generazioni di pace, sicché l’orizzonte bellico è rimosso dal sentire comune. La seconda: il mare bagna l’Italia ma noi non siamo una nazione marittima. Il vessillo che segnala il rapporto dell’italiano con le onde non è il tricolore ma la bandiera blu che premia la balneazione sostenibile o la rossa issata dai bagnini quando il mare è agitato.

I popoli marittimi navigano il mare e curano di poterlo fare liberamente, se necessario con la forza. Noi ci tuffiamo nelle acque domestiche preoccupati che siano pulite e tranquille. Fra navigatori e spiaggiaioli c’è letteralmente un abisso. Quello che passa fra chi usa le onde e chi le subisce. Fra chi è consapevole che il “bagnasciuga” di mussoliniana memoria ci connette all’Oceano Mondo e chi ferma lo sguardo alla prima boa.

Poi accade che gli Huti, fino a ieri semisconosciuta ma armatissima fazione dell’Arabia meridionale più o meno legata all’Iran, ostacolino a suon di missili la navigazione nel Mar Rosso. Con il pretesto di difendere i palestinesi massacrati da Israele a Gaza, dalla costa occidentale dello Yemen – l’Arabia Felix dei nostri avi - costoro colpiscono selettivamente i navigli che via stretto di Bab al-Mandab puntano verso Suez. Sotto schiaffo, almeno teorico, anche portacontainer e petroliere italiane, con effetti per ora contenuti ma potenzialmente enormi: dal Mar Rosso passano i due terzi delle nostre importazioni e un terzo delle esportazioni, per circa 150 miliardi di euro l’anno.

Allarme mediatico generale. Ci si chiude lo sbocco all’oceano, si torna al periplo dell’Africa via Capo di Buona Speranza: otto giorni di navigazione in più per chi va e viene fra Italia ed Estremo Oriente. Segue riflesso delle cannoniere: britannici e americani promuovono una selezione di occidentali, tra cui noi, pensando di regolare la partita inviando qualche nave a impaurire gli Huti, non impressionati.

Riscopriamo così quel che una volta si imparava dalle carte geografiche appese alle scrostate pareti delle classi elementari: siamo quasi isola nel quasi lago che è il Mediterraneo. Privi di accesso diretto all’Oceano Mondo. Le chiavi del fu mare nostrum sono in mani altrui. Alcune benevole, altre avverse, tutte abituate a trattarci da non soggetto. Capita se non ti occupi di custodire la condizione della tua sicurezza e del tuo benessere, insomma della tua vita: la libertà di trascorrere da e verso quegli immensi nastri trasportatori dell’economia mondiale che sono le rotte oceaniche. Da cui transita il 95% delle merci e il 98% del traffico Internet.

Se poi ristudiassimo con la geografia anche la storia, scopriremmo come già l’antica Roma, conquistato l’Egitto e stabilito uno scalo ad Arsinoe (o Cleopatra), presso l’odierna Suez, vi facesse base per i commerci di spezie e seta con l’India. E per completare il controllo di entrambe le sponde del Mar Rosso nel 25 avanti Cristo Augusto ordinò al prefetto d’Egitto Gaio Elio Gallo di conquistare l’area attorno all’odierna Aden, con esiti molto provvisori. Ma il concetto del Medioceano, cifra dell’estroflessione della Penisola, era fissato ante litteram alle origini dell’impero.

Il monito di Richelieu

Per riscoprire la nostra marittimità e adeguarla alla “terza guerra mondiale a pezzi” evocata da papa Francesco, tre punti fermi.

Primo. Quel che noi chiamiamo Mediterraneo è evoluto in Medioceano. Su scala globale, canale fra Atlantico, oceano canonico della nostra alleanza, e Indo-Pacifico, teatro della competizione sino-americana per il primato planetario. Appena l’1% dell’Oceano Mondo, per il quale tuttavia passano oltre un quarto del commercio internazionale e tre quarti dell’energia diretta in Europa, più snodi strategici dei cavi sottomarini della Rete, gasdotti e oleodotti.

Tutto cominciò nel 1869, con l’inaugurazione del Canale di Suez, opera già sognata dai veneziani nel Cinquecento e realizzata anche grazie all’iniziativa del triestino Pasquale Revoltella. Il nostro quasi lago apriva così sul Mar Rosso e di qui sfociava nell’Oceano Indiano. Formidabile opportunità di sviluppo dei traffici e delle comunicazioni. L’Italia si collocava al cuore di un sistema oceanico globale che verteva per noi sulla rotta Gibilterra-Stretto di Sicilia-Suez-Bab el-Mandeb e di qui verso i mercati dell’Estremo Oriente. Salvo scoprire di non avere testa né muscoli per sfruttare tanta rendita, da incrociare con quella strettamente mediterranea che ci designa piattaforma logistica centrale fra Europa e Africa.

Secondo. L’Italia è l’unica grande nazione europea dell’Alleanza Atlantica a non affacciare sull’Atlantico. Furono Stati Uniti e soprattutto Francia a volerci nel 1949 fra i soci fondatori della Nato, mentre buona parte della classe dirigente nostrana – comunisti, socialisti, neofascisti ma anche molti democristiani, avanguardie vaticane – optava per la neutralità. Washington e Parigi, a differenza di Londra, ci vedevano infatti nella duplice chiave medioceanica (est-ovest) e mediterranea (nord-sud). Per gli Stati Uniti della guerra fredda era necessario impedire con tutti i mezzi – anche militari, se le sinistre filosovietiche avessero preso il potere – che lo Stretto di Sicilia e la sua penisola di riferimento finissero sotto Stalin.

Conviene citare il memorandum datato 2 marzo 1949 con cui il Dipartimento di Stato convinse il presidente Truman ad ammetterci nel Patto di Washington, perché suona di qualche attualità: “Nel caso di guerra terrestre in Europa occidentale, l’Italia è strategicamente importante. Quanto alla guerra marittima, non c’è dubbio circa la sua potenzialità strategica per il controllo del Mediterraneo. E’ di grande importanza negare al nemico l’uso dell’Italia come base per il dominio marittimo e aereo del Mediterraneo”. Uno sguardo alle basi americane e atlantiche in Italia, quasi tutte collocate in prossimità del mare – specie in Sicilia e nel Nord-Est – ci conferma che quel precetto resta cogente.

Per la Francia, paese insieme atlantico e mediterraneo, eravamo a un tempo profondità strategica utile all’Esagono per assorbire il primo impatto di un attacco dall’Urss, ma soprattutto passerella verso l’Algeria, allora territorio metropolitano, e il proprio impero africano.

Terzo. Da diversi anni, il mare che bagna l’Italia viene spartito fra gli Stati litoranei come fosse terra. In particolare, le Zone economiche esclusive (Zee) sono di fatto estensione di un grado di sovranità non solo simbolica dalla terra al mare, perciò protette dalle rispettive Marine militari. Non solo aree privilegiate di sfruttamento delle risorse marittime. Due casi eminenti: la Turchia sbarcata e insediata a Tripoli anche per vendicare la disfatta subita dall’Italietta di Giolitti nel 1911 ne profitta per estendere le sue pretese acquatiche dalla costa anatolica a quella libica, giusta la dottrina della Patria Blu. L’Algeria, che nei nostri piani deve surrogare la carenza di gas russo, considera parte del Mar di Sardegna propria area di influenza. Chi frequenta le dune di Oristano può godere dello spettacolo di sottomarini algerini di fabbricazione russa classe Kilo versione 636, dotati di missili Kalibr, in pattugliamento a ridosso delle rive sarde.

Postilla: siamo l’unico attore – osservatore? – medioceanico/mediterraneo a non avere ancora disegnato la propria Zee. Il parlamento ha varato il 14 giugno 2021 una legge che ci autorizza ad affermarla. Siamo la patria del diritto, dunque ci basta. Anche perché disegnarla e imporla significherebbe contestare Zone economiche esclusive altrui. Siamo troppo beneducati per solo concepirlo. Si sa che fine fanno i gentiluomini in un mare di più o meno legittimi pirati. Due anni fa Limes ha pubblicato la mappa di una possibile Zee nostrana. Silenzio delle tecnocrazie deputate, scontato il mutismo della politica. Quanto tempo dovremo attendere prima di partecipare a una partita decisiva per il nostro paese, giocata finora solo dai nostri vicini?

L’incrocio fra guerra in Ucraina, che verte anche sul controllo del Mar Nero, e conflitto Israele-Hamas esteso a gran parte dell’Oriente vicino, con riflessi immediati su Medioceano orientale e Mar Rosso, rivela l’urgenza di una strategia marittima nazionale. Non retorica: pensiero applicato. La posta in gioco è vitale. Speriamo di non dover riconfermare un giorno il monito del cardinale di Richelieu (1585-1642): “Le lacrime dei nostri sovrani hanno il gusto salato del mare che vollero ignorare”.

La gabbia mediterranea

Il nostro esistenziale collegamento all’Oceano Mondo implica sicurezza nei mari di casa – Adriatico, Ionio, Tirreno – e libertà di navigazione attraverso i colli di bottiglia. Gibilterra pare fuori pericolo, anche se da Teheran si levano stravaganti minacce alle Colonne d’Ercole. La crisi si concentra quindi sullo Stretto di Sicilia e sulla combinazione Suez-Bab al-Mandab, passatoi del Mar Rosso. Quanto ai Dardanelli, che separano il Nero dal resto del Mediterraneo, sono meno rilevanti per noi, a meno che la guerra russo-ucraina non vi degeneri. Resta il fatto che il Mediterraneo orientale a ridosso di Israele, il Mar Nero e il Mar Rosso sono inibiti al nostro traffico mercantile, a meno di correre rischi che pochi sono disposti ad accettare.

L’Italia è alle prese con tre potenze revisioniste: Russia e Cina, rivali massimi dell’America, più Turchia neottomana e islamista di Erdo?an, che usa la Nato ma non intende esserne usata. Tre strategie autonome, differenti, ma convergenti nell’agitare le acque da cui dipendiamo.

Anzitutto il fronte caldo, quello russo. C’era una volta il Medioceano sovietico, dove la Quinta Squadra schierava decine di navi contro la Sesta Flotta Usa e le altre Marine atlantiche. Durante la guerra fredda Mosca aveva steso una ragnatela navale dall’Albania (dove fino al 1961 contava sullo scalo di Valona, dirimpetto a Otranto) fino a Sfax e Biserta in Tunisia, passando per i porti libici di Tobruk e Tripoli, mentre nel Mar Rosso si installava a Hudeida, Yemen. Dal 2007 la Russia ha deciso di opporre all’espansione terrestre e marittima della Nato verso nord-est una sua controdirettrice sud-ovest di penetrazione verso gli approdi già sovietici in Nord Africa e lungo ambo le coste del Mar Rosso. Di qui spingendosi fino al Sahel e oltre, profittando del collasso della Francia africana, della debolezza degli altri europei – italiani inclusi - e dello scarso interesse americano per il Continente Nero. Dove esibisce un suo peculiare soft power, misto di terzomondismo comunista riciclato e tradizionalismo anti-occidentale esaltato dal trittico Dio-Patria-Famiglia. L’aggiramento da sud della Nato è capolavoro tattico. Malgrado le limitate risorse a disposizione, Mosca si sta spingendo in profondità nelle acque e nelle terre prossime alle coste meridionali e orientali della Penisola. Non solo Wagner.

Il ritorno della Russia nelle acque di nostro diretto interesse è scattato con il rafforzamento della base siriana di Tartus, grazie all’intervento pro-Assad. Di qui, prua a sud-ovest, verso la Cirenaica già infiltrata dai wagneriani, ormai nazionalizzato. Obiettivo impadronirsi di uno scalo nell’area, d’intesa con il volubile capoclan locale, “generale” Haftar. Con preferenza per Tobruk, mentre a Derna spuntano cinesi. Non basta: Putin conta sull’Egitto di al-Sisi, guardiano di Suez, per alcune intese sottobanco (di più il dittatore egiziano non può, a meno di rompere con gli americani). Mentre a Berbera, nel Somaliland, dove le acque dell’Indiano si apprestano a mescolarsi con le onde del Rosso, i russi sembrano anticipati dagli etiopici. Nell’area del Mar Rosso Mosca si interessa anche all’Eritrea già italiana, con occhio su Massaua. Risalendo, interviene nella mischia sudanese, dove infuriano simultaneamente tre teatri di guerra civile. Paradosso (apparente): qui militari russi si scontrano con esigue avanguardie ucraine, prolungamento africano dello scontro che infiamma le rispettive frontiere europee. Un recente video del Kyiv Post mostra un ufficiale del Gruppo Timur, afferente alle forze speciali ucraine, interrogare un soldato russo del Gruppo Wagner in pieno deserto sudanese.

Infine, non per importanza, Mosca conta su solidi rapporti con Algeri. Forze armate e intelligence algerina coltivano da molto tempo speciali relazioni con gli apparati moscoviti. Vale anche per la Marina, generosamente armata dai russi ma dotata anche di ammiraglia d’origine italiana: una grande nave da sbarco, evoluzione della classe San Giusto. Presa per minacciare il Marocco, buona anche per visitare la Sardegna.

Di tutt’altro profilo l’avanzata della Cina nel Medioceano. Se Mosca muove da guastatrice, Pechino cura di offrirsi “paritario” partner economico. Meccanica geopolitica fine mirata a subentrare ovunque possibile agli Stati Uniti in ritirata. Secondo uno schema che procede dall’economico allo strategico: prima le infrastrutture, con largo impiego di manodopera cinese, che necessita di protezione, ovvero intelligence, polizia speciale, fino a schierare militari in relative basi. Ufficialmente Pechino ne ha all’estero solamente una, guarda caso a Gibuti, presso Bab al-Mandab, accanto a quella (più piccola) americana e a molte altre, italiana inclusa. Installazioni pechinesi sono in costruzione lungo la via della seta marittima che corre tra i porti della Cina lungo l’intero Indo-Pacifico, con evidenti ambizioni panoceaniche.

Decine di miliardi di dollari sono stati investiti in infrastrutture energetiche, portuali e di trasporto in Egitto, specie nella zona del Canale di Suez. Il parziale successo di questo approccio, malgrado le difficoltà strutturali che vessano la Repubblica Popolare, si palesa in questi mesi di crisi nel Mar Rosso. Le autorità di Pechino hanno raccomandato ai loro mercantili di segnalare che l’equipaggio a bordo è interamente cinese. Per gli Huti vale quasi sempre da lasciapassare.

Intanto la pechinese Cosco, massima azienda di shipping al mondo, affiancata da gemelle non troppo minori, continua a investire in porti mediorientali, africani ed europei. Speciale attenzione è stata rivolta all’Italia, sancita con la clamorosa adesione del nostro paese alle vie della seta, nel 2019. Ma dopo aver fallito lo sbarco a Taranto e a Trieste, consolandosi con scali relativamente minori quale Vado-Savona, la Cina ha subìto il voltafaccia italiano. Su pressione americana, nel dicembre scorso il governo Meloni ha abbandonato l’accordo con Pechino, senza che per questo Xi Jinping abbia perso di vista lo Stivale.

Quanto alla Turchia, avremo molto a che farci nei prossimi decenni. Come Pechino intende mettere in sicurezza i mari di casa, così Ankara, meno brutalmente ma con ammirevole metodicità, si sta installando nelle terre affacciate sulle acque che bagnano lo Stivale tra Adriatico, Ionio e Stretto di Sicilia anche grazie all’acquisto di terminal a Trieste e a Taranto. Frammenti di Patria Blu. Finita l’epoca triste del ridotto anatolico.

Il ritorno a Tripoli significa poi un’ipoteca sulla rotta migratoria centrale verso l’Europa via Italia, dopo quella imposta su quella orientale, verso Grecia e Balcani. Il tutto imperniato sulla ostentata presenza nel Mediterraneo orientale, per riportare un (lontano) giorno a casa l’intera Cipro e le isole dell’Egeo perse con il crollo del sultanato ottomano. Dal Golfo di Trieste diramando a ovest verso lo Stretto di Sicilia e a est in direzione di Creta e Dodecaneso i turchi disegnano una sorta di lambda - speriamo ad Ankara non si alterino per il prestito dal greco – che si sovrappone alle aree per noi più critiche del mare di casa, coinvolgendo golfi, canali e stretti decisivi, da Trieste a Otranto, dalla Sicilia verso i Dardanelli e Suez. I nostri strateghi hanno individuato nell’undicesima lettera dell’alfabeto ellenico, consonante liquida, la cifra della necessaria collaborazione con il più estroverso fra gli alleati atlantici. Purché l’eccesso di attivismo neo-ottomano, ad esempio nei Balcani adriatici, non produca scintille.

Bassa marea geopolitica

Qualsiasi strategia marittima impone di guardare la terra dal mare, non viceversa come noi tendiamo a fare, fermandoci al primo orizzonte. Perché quello è lo sguardo di chi ci guarda da fuori e immediatamente coglie la marittimità inespressa dell’Italia. E perché per tenere la barra dritta serve integrare il punto di vista proprio con l’altrui. Il Belpaese parrebbe altrimenti avviato alla dolce fine di Narciso: troppo innamorato di sé stesso, lo sguardo all’ombelico, finirebbe per cadere e morire inghiottito nel Lago Mediterraneo semichiuso all’Oceano Mondo e percorso da squali. Predatori perfetti.

Studiandoci da fuori ci metteremmo fra l’altro in posizione parallela a quella degli Stati Uniti, nostro garante di prima e ultima istanza. Almeno fino a ieri: non sappiamo quanto oggi. Ma domani, soprattutto dopodomani? Dalla risposta deriva la nostra strategia. L’impressione è che quanto più il mare fu nostro si ridurrà a laguna salmastra sconnessa dalle principali rotte oceaniche, tanto meno interesserà gli americani e tanto più sarà esposto alle scorribande di nemici o aggressivi competitori.

Processo destinato ad accelerare con la fusione dei ghiacci artici. Nel giro di pochi decenni nascerà probabilmente nel Grande Nord una ricca rotta commerciale fra Estremo Oriente, Russia, Europa settentrionale e Nord America, più rapida e meno costosa della via medioceanica. La Russia di Putin ne ha fatto l’emblema della propria rimonta nelle gerarchie mondiali, mentre la Cina si proclama potenza artica e gli Stati Uniti si organizzano con canadesi, britannici e nordeuropei per impedire che la futura massima linea di comunicazione transoceanica cada in mani avverse.

Mentre nei bar nostrani si scommette sulla vittoria di Biden o Trump (o chi per loro) alle elezioni di novembre, sfugge che il trionfo dell’uno o dell’altro inciderà solo su stile, misura e velocità di una riconversione strategica ormai palese. “Retrenchment” è il suo nome negli apparati a stelle e strisce, traducibile come “ridimensionamento”. Non “isolazionismo”, inteso rinuncia al primato mondiale per curare il giardino di casa – assurdità che produrrebbe la perdita di entrambi. Nella versione più raffinata, dovuta alla penna di Stephen Wertheim (Foreign Affairs del 14 febbraio), significa “disincagliare gli Stati Uniti dal Medio Oriente, affidare gran parte della difesa europea agli alleati europei e lavorare per stabilire una coesistenza competitiva con la Cina”. Tradotto: meno impegno americano nel nostro spazio euromediterraneo, quindi più responsabilità italiana, da condividere anzitutto con i partner euroccidentali (Euroquad Italia-Francia-Spagna-Germania). Per quanto possibile anche con la Turchia della Patria Blu. E approfondendo con Washington, su base anche bilaterale, lo scambio fra quel che resta dell’ombrello nucleare con il nostro impegno in aree per noi rilevanti evacuate dagli americani per evitare che finiscano in mani avverse.

Giusto un anno fa, un’eccezionale bassa marea di origine sigiziale colpì le coste dello Stivale. L’acqua si ritirò dai porti di Napoli e Bari, i canali di Venezia finirono in secca naturale. Ci sono voluti due millenni perché il mare di Roma da Mediterraneo diventasse Medioceano. Tronco basilare dell’Italia. Non ci perdoneremmo se la bassa marea mossa dalla nostra incoscienza ci scoprisse presto in secca strategica.

 

 

 

 

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