Vai al contenuto

duepopoliduestati

Israele e Palestina: due Stati cooperanti (ma speriamo in una loro trasformazione ed estinzione grazie all’autogestione dialogica dal basso)

(sotto riportati anche: 1) sondaggio di Ilvo Diamanti illustrato su la Repubblica del 17 novembre 2023; 2) Raniero La Valle intervistato da Degiovannangeli su l'Unità del 16 novembre 2023 ; 3) Marco Alloni sul Fatto Quotidiano del 15 novembre 2023)

Nel mentre ci stiamo organizzando, in quanto membri ICAN, per contribuire, dal 27 novembre al 1° dicembre, con un working paper ufficiale, alla Conferenza di New York sulla proibizione delle armi nucleari (saremo rappresentati da Sandro Ciani) , abbiamo lanciato, Disarmisti esigenti & partners, la proposta di un Comitato per liberare Marwan Barghouti.  Questa idea la abbiamo presentata come un contributo a fare tacere le armi nel conflitto israelo-palestinese, svuotando i giacimenti di odio razzista in perenne coltivazione. “"La parola deve essere riconsegnata a una politica che sappia dialogare grazie a leader ragionevoli (dai due lati del fronte – ndr) e disponibili a mettersi a discutere intorno a un tavolo".

(si vada su: https://www.petizioni24.com/barghouti_libero).

rif. Alfonso Navarra (cell. 340-0736871) ed Ennio Cabiddu (cell. 366-6535384) - Milano 11 novembre 2023

Primi firmatari: Maria Carla Biavati - Ginevra Bompiani - Daniele Barbi - Giovanna Cifoletti - Sandra Cangemi - Ada Donno - Alessandro Capuzzo Mario Di Padova - Cosimo Forleo -Sandro De Toni - Luigi Mosca - Roberto Morea - Roberto Musacchio - Teresa Lapis - Enrica Lomazzi - Paola Mancinelli - Antonella Nappi -  Francesco Lo Cascio - Tiziano Cardosi - Angelo Cifatte - Paolo Grillo - Vittorio Pallotti - Tommaso Sodano - Elio Pagani - Olivier Turquet- Guido Viale 

La nostra iniziativa di costruzione del Comitato Barghouti vorrebbe coinvolgere, in quanto membri War Resisters International (WRI), gli obiettori israeliani nella opposizione alla guerra in corso intervenendo sul caso dei giovani ebrei russi scappati dal fronte ucraino. In Israele dove si sono rifugiati ora rischiano di essere arruolati a forza e mandati a combattere a Gaza: dalla padella nella brace.

Dal 4 al 10 dicembre la campagna Object War, di cui la WRI è co-promotrice, invita all’azione per sostenere gli obiettori di coscienza e i disertori provenienti da Russia, Bielorussia e Ucraina. La nostra idea è: potremmo prendere dei giovani russi e portarli da Tel Aviv in Italia per ospitarli ed aiutarli ad ottenere l’asilo politico cui avrebbero diritto. Questo accadrebbe nel 50ennale della fondazione della Lega Obiettori di coscienza che celebreremo con un murales illustrante “Il disertore di Boris Vian” di fronte alla sede nazionale di Milano (incrocio via Pichi, via Gola).

Per acquistare profondità strategica, proviamo ora ad affrontare, prendendo come spunto due interventi, uno dello studioso di politica Franco Ferrari e l’altro del sociologo ecologista Guido Viale, una questione legata all’attualità politica che riteniamo di importanza decisiva: quale deve essere la prospettiva perseguita dal movimento per la pace nel conflitto israeliani-palestinesi-arabi: quella della formula “due popoli, due Stati” oppure lo Stato unico binazionale in Palestina? O ci sono altre possibili soluzioni da sperimentare?

Ne discutiamo online, anche con scopi formativi, venerdì 17 novembre dalle ore 18:00 alle ore 20:00, su un incontro zoom la cui registrazione sarà disponibile sull’archivio web di Radio Nuova Resistenza.

Questo il link per partecipare:

https://us06web.zoom.us/j/87543174880?pwd=mB5h4WXwk3UiGCp2poGOZzHEwzLFaC.1

Possiamo anticipare un presupposto dei ragionamenti che andremo a svolgere. Se fossero in buona parte valide ed integrabili, come a noi sembra, le considerazioni che andremo a sintetizzare, cioè, sia quelle di Ferrari che quelle di Viale, altri approcci apparirebbero colmi sì di buone intenzioni ma anche forieri di rischiose strumentalizzazioni e conseguenze politiche negative, proprio perché astratti e fuori dal contesto storico. Ci riferiamo ad altri slogan e appelli che sognano, probabilmente in modo non meditato, quale soluzione politica al conflitto in corso, “un unico Stato” nella regione geografica palestinese. Anche se invitano ad “uscire dalla gabbia attuale” e auspicano di poggiare, giustamente, “sull'uguaglianza delle persone a prescindere dalla loro appartenenza e dal loro credo religioso”, spesso vivono la contraddizione di non parlare poi in concreto di diritti umani, sociali e culturali già violati e da difendere nel presente.

Non ha senso, in questo momento storico, ed è comunque del tutto dubbio che abbia un senso pacificatore, malgrado la motivazione della tensione utopica verso la pace, mettere sostanzialmente in discussione il diritto alla esistenza separata dello Stato di Israele. Questo sottinteso va esplicitato e, con dispiacere, non avallato, a maggior ragione se si ha chiaro il concetto gandhiano della “bellezza del compromesso”: si lavora non per la pace “giusta” (ogni attore ha il suo concetto di “giustizia”, negarlo è di per sé violenza) ma per la pace possibile, in quanto, ci si perdoni il ricorso a degli slogan , “la pace è la via” e “non c’è giustizia senza pace”.

Facciamo mente locale e vediamo di cogliere quello che al buon senso dovrebbe mostrarsi come evidente: vi pare che vi siano le basi di un dialogo per la pace se A dice a B: "Tu non dovresti esistere, anzi proprio non esisti", e B si pone nei confronti di A con il medesimo disconoscimento esistenziale?

**********************************************************************

Secondo Franco Ferrari (si vada su: https://transform-italia.it/stato-bi-nazionale-o-due-stati-per-due-popoli-quale-soluzione-per-la-palestina/ ), per rispondere all’alternativa: due o un solo Stato?, ci sono due questioni di principio da assumere in premessa.

La prima è il rifiuto degli stati etnici, la seconda è il riconoscimento e l’applicazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli.

Benché Israele nasca come“fatto coloniale”, non c’è dubbio che oggi gli israeliani siano un “popolo” che insiste su un territorio e come tale debba avvalersi del principio di autodeterminazione. Lo stesso evidentemente vale per i palestinesi e questo è un diritto, non una concessione subordinata al fatto che i palestinesi si “comportino bene”. Per molti israeliani, per loro natura, i palestinesi non possono “comportarsi bene” e quindi non potranno mai avere il “premio” dello Stato sovrano.

Oggi l’ipotesi dei “due popoli, due Stati” è fortemente indebolita, come dicono tutti gli osservatori onesti, dalle politiche israeliane, dalle politiche di annessione della parte araba di Gerusalemme est e dagli insediamenti di 700.000 coloni (sul numero esatto ci sono valutazioni diverse) nei territori occupati nel ’67. (…) Non si vede però come questi ostacoli svaniscano nell’ipotesi dello Stato unico.

D’altra parte, l’esistenza di due Stati non implica affatto l’esclusione di forme possibili, in un futuro che appare molto lontano, di confederazione o addirittura di unificazione in un unico Stato. Al momento però questa ipotesi appare ancora più difficile della realizzazione dei due Stati. Pensiamo alla difficoltà di coesistenza tra protestanti e cattolici nell’Irlanda del Nord e quanto lungo sia il percorso di una possibile riunificazione dell’isola in un unico Stato. Ancora oggi i protestanti celebrano la battaglia di Boyne del 1690 nella quale Guglielmo d’Orange sconfisse il cattolico Giacomo II.

I conflitti etnici, soprattutto quando sono stati caratterizzati da un elevato grado di violenza, e si mescolano ad altri elementi come quelli religiosi (chi può mettere in discussione il possesso di una terra se te l’ha promessa dio in persona?), possono richiedere tempi lunghi per essere riassorbiti e solo se cambiano gli aspetti strutturali e non solo quelli ideologici e di senso comune. La soluzione dei due Stati ha ancora alcuni vantaggi. Corrisponde alla soluzione legittimata dalle disposizioni dell’Onu. Ha il sostegno, almeno a parole, di tutte le maggiori potenze ed è quella che corrisponde al principio di autodeterminazione dei due popoli. Che poi venga utilizzata, come denunciano i comunisti israeliani, solo per coprire ipocritamente la realtà di fatto dell’occupazione israeliana è incontestabile ma non sufficiente per escluderla.

Dal punto di vista palestinese gli ostacoli principali sono rappresentati dalla debole rappresentatività e dalla mancanza di una strategia dell’ANP per uscire dallo stallo in cui si trova (e forse anche dalla volontà di farlo) e dalla divisione che si è prodotta tra Fatah e Hamas. Senza una ricomposizione unitaria su una linea chiara e realistica del movimento di liberazione nazionale palestinese, l’unico Stato realmente esistente e che tale resterà per un lungo su tutto il territorio della Palestina storica tempo, non può che essere quello israeliano che dispone della forza e della brutale determinazione necessaria ad imporra la propria soluzione”.

Guido Viale interviene nel dibattito con una proposta che può rompere molti degli schemi, diventati inamovibili per abitudine, che concepiscono la convivenza tra popoli solo in termini di rapporti di vertice definiti dalla dimensione statuale. (Si vada su: https://www.pressenza.com/it/2023/10/israele-e-palestina-due-stati-uno-o-nessuno/).

“(Si può invece immaginare il rapporto tra gruppi umani distinti nella forma di una estinzione degli apparati statali) a favore di una democrazia “dal basso” e confederale, che metta al centro i bisogni e le aspirazioni di ogni sua comunità.

Può sembrare un’utopia, ma bisogna cominciare a parlarne e non solo a proposito di Israele e della Palestina. Il Rojava dimostra che è una strada percorribile. Certo un intervento della “comunità internazionale” (un’entità che esiste sempre meno) a tutela dei diritti e dell’incolumità di tutte le comunità sarebbe indispensabile, ma lo sarebbe anche nel caso che si optasse seriamente per le soluzioni dei due o di un solo Stato.

Si tratterebbe in ogni caso non di un’utopia, ma di un esperimento anticipatore di soluzioni da riproporre in tutte le situazioni sempre più numerose di conflitto e di crisi “interetnica”. Un “esperimento” senza il quale il mondo sembra destinato a farsi seppellire dalle guerre o ad autodistruggersi per aver trascurato la minaccia che incombe su tutti più di ogni altra: quella del collasso climatico. La globalizzazione senza Stati è già stata in gran parte realizzata dalla finanza internazionale. Adesso è ora che a perseguirla siano invece i popoli.

Senza pretendere di essere esaustivi, i passi che nella situazione concreta sono ineludibili mi sembrano essere:

  • L’abbattimento delle barriere fisiche e di controllo su tutti i territori;
  • L’istituzione di una Commissione mista per la Verità e la Riconciliazione sull’esempio di quella messa in atto in Sudafrica;
  • La presa in consegna da parte di una commissione internazionale di tutti gli armamenti noti di entrambe le parti: dai kalashnikov all’atomica (molti sfuggiranno al controllo, ma si tratta di un work in progress);
  • La promozione di milizie miste per mantenere l’ordine pubblico composta di individui disposti a farne parte e a rispettarne le finalità;
  • La promozione di comunità miste tra tutte quelle reti che già ora ritengono di poter svolgere un lavoro comune (e tra queste un ruolo di primo piano spetta fin da subito alle donne);
  • La consegna a ogni comunità di territori sufficienti a garantirne la sopravvivenza;
  • Lo stanziamento di ingenti finanziamenti internazionali sotto un controllo congiunto degli enti donatori e dei rappresentanti delle due comunità.

_____________________________________________________________________________________

Segnaliamo un importante articolo a pagina 13 di la Repubblica del 17 novembre 2023. Ci riferiamo al sondaggio di Demos illustrato da Ilvo Diamanti. Titolo: "Tutti contro Hamas ma la guerra divide l'Italia. 3 su 4 vogliono due Stati". È il buon senso popolare che porta la stragrande maggioranza degli italiani a sostenere il progetto dei due stati indipendenti che garantiscano al popolo israeliano e a quello palestinese cittadinanza e legittimità.  "Una scelta secondo gran parte dei cittadini da perseguire "senza prendere parte ". Per garantire diritti e poteri a entrambi i popoli"...

_____________________________________________

MAPPE. Tutti contro Hamas. Ma la guerra divide l'Italia: 3 su 4 vogliono i due Stati.

Gli elettori dei partiti di centro-sinistra condannano il 7 ottobre ma criticano anche lo Stato ebraico
di Ilvo Diamanti
 
Viviamo in tempi inquieti.  Segnati e scossi da guerre che agitano il contesto globale. E indeboliscono il nostro senso di sicurezza. Ormai orientato, rapidamente, verso l’in-sicurezza. Il recente sondaggio condotto da Demos lascia pochi dubbi al proposito. Il 53% degli italiani si dice, infatti, “molto” preoccupato del conflitto, innescato, il mattino del 7 ottobre, dall’attacco lanciato da Hamas contro Israele. Mentre un ulteriore 36% si dichiara “abbastanza” preoccupato. Circa 9 italiani su 10, dunque, denunciano un senso di preoccupazione per questa guerra. Che sentono vicina, incombente. Anche se si combatte a circa 4.000 chilometri dall’Italia. Una distanza rilevante, ma non troppo. Perché le armi e gli strumenti di guerra agiscono e re-agiscono a distanze anche maggiori. Inoltre, le tecnologie della comunicazione superano ogni distanza. E i media raccontano la guerra in diretta. In quanto “la paura fa spettacolo”. Attira e moltiplica l’attenzione delle persone. Alza gli indici di ascolto. Così lo spettacolo della guerra e della paura prosegue. Senza soluzione di continuità.
D’altronde, il conflitto che ha sconvolto l’area israelo-palestinese si affianca all’invasione della Russia in Ucraina nel febbraio 2022. Provocando una guerra che prosegue. In modo drammatico. Non lontano dai nostri confini. E continua a generare grande preoccupazione. In misura di poco inferiore rispetto a quanto avviene in Israele. Il sentimento degli italiani (e non solo...) è, quindi, attraversato da grandi tensioni. Provocate e alimentate da guerre che proseguono (e si inseguono). A conferma che viviamo una fase di instabilità globale. 
D’altra parte, queste guerre vedono protagoniste, in diversa misura e con ruoli diversi, due grandi potenze globali. Gli Usa e la Russia. Mentre la Cina è presente, sullo sfondo. Anche l’Europa è attenta. Coinvolta. Necessariamente. Nel caso dell’Ucraina, in particolare, è il teatro di guerra. Ma non riesce ad imporre il proprio ruolo quanto dovrebbe. Proprio perché è parte in causa. 
Così, gli italiani, come mostra il sondaggio di Demos, esprimono opinioni e (ri)sentimenti di segno diverso. Ma, inevitabilmente, di grande preoccupazione. Di fronte all'attacco di Hamas, la condanna appare pressoché unanime. Tuttavia, una parte molto ampia dei cittadini (il 44%) rileva e sottolinea come anche Israele abbia delle responsabilità. Questa opinione appare particolarmente estesa - e diviene maggioritaria - fra gli elettori di centrosinistra e del M5s. Mentre fra chi vota per i partiti di centro-destra, per quanto le responsabilità di Israele vengano denunciate con chiarezza, prevale la condanna di Hamas.
Appare comunque larghissima, fra i cittadini, la richiesta di sostenere il progetto dei due Stati indipendenti, che garantiscano al popolo israeliano e palestinese cittadinanza e legittimità. Una scelta, secondo gran parte di cittadini, da perseguire senza “prendere parte”. Per garantire diritti e poteri a entrambi i popoli. Questa soluzione viene indicata, come prioritaria, da circa 3 persone su 4. Mentre componenti molto più limitate, per quanto significative, ritengono più importante sostenere le ragioni specifiche del popolo palestinese e/o israeliano.
I due terzi del campione, comunque, auspicano che, per favorire la soluzione del conflitto, “il governo riconosca lo Stato indipendente paleestinese”. Mentre il 40% considera prioritario “sostenere Israele, insieme agli Usa e all’Occidente”. C’è, quindi, una quota significativa di cittadini, il 32%, che vorrebbe perseguire entrambe le soluzioni ritenendole “complementari”, o in grado di rafforzarsi reciprocamente.
Le posizioni principali, comunque, assumono un differente peso fra gli elettori, in base alla loro posizione nello spazio politico. A centro-sinistra si dà maggiore importanza al sostegno dello Stato palestinese, molto meno al sostegno di Israele. Una prospettiva che ottiene, invece, maggiore consenso fra gli elettori di centro-destra.
Il mondo, quindi, non appare più un’entità lontana e astratta. Al contrario, assume contorni e colori ben definiti. Utili a segnare i confini delle zone critiche. I contorni delle nostre paure. In questo modo, avvicina Paesi che, un tempo, poco tempo fa, apparivano lontani. Incolori. Mentre ora sono divenuti molto più vicini. E danno un colore e una posizione alle nostre paure. 

 

_____________________________________________________________________________________

Qui di seguito l'intervista a Raniero La Valle uscita il 16.11.23 sull'Unità

“L’Europa scelga da che parte stare: con gli USA o con la pace”, parla Raniero La Valle

intervistato da Umberto De Giovannangeli
La tragedia di Gaza e i balbettii della sinistra. Un tema scomodo. Ne discutiamo
con Raniero La Valle, scrittore, saggista, politico.
Nei giorni scorsi l’Unità ha scritto, a commento della manifestazione di Roma del Pd:
“Ascoltare per circa due ore i discorsi a piazza del Popolo, nei quali si affrontavano
questioni serissime, che io conosco bene, ma senza neanche accennare alla guerra e al genocidio del popolo della Palestina, faceva male”. Perché questa sottovalutazione, perché questi balbettii a sinistra?
Non so perché l’attenzione, l’impegno, il coinvolgimento di quelli che oggi sono considerati o passano per partiti di sinistra, sia meno forte, consapevole di quanto lo fosse in passato. Io so solo una cosa...
Quale?

Che nel passato il tema della pace, del rapporto tra le potenze, dell’ordine del mondo era un grande movente della politica e delle scelte della sinistra, in particolare del Pci. La pace, una visione del mondo e delle relazioni internazionali, non solo avevano un ruolo centrale nella proposta politica ed anche elettorale del Partito comunista ma aveva anche un grande riscontro elettorale. C’era moltissima gente che senza aderire alla prospettiva generale, complessiva, del comunismo, del socialismo, del superamento del capitalismo, cose più specifiche e per ciascuno magari più importanti, rispetto alla pace e alle relazioni internazionali, tra i popoli e non soltanto tra gli stati, orientava il suo voto, le sue scelte verso i partiti di sinistra aldilà delle opzioni ideologiche o politiche. La stessa Sinistra indipendente, che è stata l’esperienza politica che noi abbiamo fatto anche con molti cattolici, valdesi, democratici non credenti, era in gran parte fondata sulla convergenza,sulla condivisione dei temi della politica estera. E da questa considerazione discende la

domanda vera...
Vale a dire?
Che cosa c’era allora in gioco? Perché questo suscitava un coinvolgimento che invece oggi non esiste?
Le sue di risposte?
Al fondo c’erano due grandi questioni. La prima, era il pericolo di una guerra mondiale nucleare. Da pochi anni eravamo usciti dalla esperienza spaventosa della Seconda guerra mondiale, a cui si era aggiunto lo scempio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Lo spettro di un nuovo conflitto mondiale, addirittura nucleare, era qualcosa che determinava i comportamenti non solo delle opinioni pubbliche ma anche dei governi. Era un periodo in cui per definizione la guerra non si doveva fare. Anche le grandi potenze erano tutte all’interno di questa cultura, secondo cui si doveva evitare la guerra, anche se non era per ragioni etiche o umanitarie, però c’era questa idea che la guerra non si poteva fare. Il coinvolgimento dell’opinione pubblica era in questo senso: la guerra non si deve fare. E questo era già una ragione di un impegno nei confronti della politica estera.
E la seconda ragione?

Era che in quel momento, all’interno di questo grande problema generale della guerra mondiale, c’era un mondo in ebollizione. C’erano molti paesi, molti popoli che erano in via di liberazione, che si battevano eroicamente per raggiungere questo obiettivo, per realizzare questo sogno. C’era una spinta molto forte di solidarietà, di coinvolgimento, di partecipazione alle lotte di questi popoli. Quale era, ecco un’altra domanda cruciale, la ragione per cui in Italia c’era questa forma di compartecipazione politica con i partiti della sinistra, in particolare con il Pci. La ragione la direi così. Perché quello che vigeva in Italia era, in qualche modo, l’obbedienza allo schieramento atlantico, all’alleanza con gli Stati Uniti, che aveva le sue ragioni politiche ma non poteva determinare qualsiasi comportamento. E allora il punto di una possibilità di una scelta diversa, di un’alternativa, di un appoggio alle lotte dei movimenti di liberazione anche contro i vecchi imperialismi, era

qualche cosa che portava ad una scelta di sinistra. Lì c’era stato il grande catalizzatore della guerra del Vietnam. Guerra apparsa come una prepotenza, una prevaricazione degli Stati Uniti contro un popolo di cui si riconosceva la dignità, il valore della sua lotta di liberazione, il diritto ad autodeterminarsi anche al di fuori dell’area delle grandi potenze. L’appoggio spontaneo nei confronti di questa lotta era molto forte.
E poi cosa è accaduto?
E’ accaduto che con la fine della Guerra fredda e dei blocchi, quella guerra che era stata esorcizzata da tutti, comprese le grandi potenze, e considerata proscritta, è stata invece rapidamente riabilitata, è stata recuperata. L’idea della guerra che aveva sempre determinato i rapporti internazionali, che per quei decenni era stata per così dire congelata, viene rapidamente ripristinata e riguadagnata in particolare dagli Stati Uniti che ne hanno fatto il modello per la guerra contro l’Iraq, la guerra del Golfo, la cosiddetta guerra umanitaria, per la democrazia.
C’è stata questa riabilitazione della guerra. E d’allora sono ricominciate le guerre
convenzionali che prima anch’esse erano considerate non possibili all’interno di quella situazione generale di contrasto tra blocchi e di rischio di guerra atomica. Questa riabilitazione della guerra è diventata opinione comune. Si accetta tranquillamente che si faccia una guerra dopo l’altra, e anche quelle che erano state lotte di liberazione sono oggi abbandonate.
Ad esempio?
L’esempio più attuale e drammatico.  La Palestina. Pur all’interno dello schieramento atlantico dell’Italia, era stato un grande tema di un’autonomia della politica estera italiana. Ricordo Andreotti, la Dc, per non restare solo nell’ambito dei partiti della sinistra. Anche all’interno di una solidarietà verso Israele, c’era questa aspirazione ad una soluzione del problema palestinese nei termini di una realizzazione della loro autonomia, della loro libertà e statualità. Oggi tutto questo appare finito. Triste ma vero. Purtroppo.
Per restare alla tragedia di Gaza. A me torna in mente un’affermazione molto forte di un grande intellettuale palestinese scomparso, Edward Said: “La tragedia di noi palestinesi è di essere vittime delle vittime”. Fino a quando il comportamento d’Israele viene da tutti in qualche modo avallato solo in forza del ricordo della Shoah, questo provoca un congelamento del giudizio politico, determina una impossibilità di fare una scelta che possa essere produttiva di conseguenze positive nella vita internazionale.

ll problema di superare il condizionamento assoluto che produce il ricordo della Shoah, di quell’immane genocidio, vale non solamente per le opinioni pubbliche, che si sentono in obbligo di dimostrare continuamente la propria solidarietà col popolo ebraico reduce dai campi di sterminio, ma è qualche cosa che travaglia lo stesso pensiero ebraico, di molti intellettuali, filosofi, scrittori, storici, rabbini, esponenti autorevoli del mondo ebraico e perfino d’Israele. Per restare all’Italia, pensiamo, ad esempio, alla posizione di Bruno Segre: non possiamo essere schiavi della memoria della Shoah. Questa memoria, era il suo messaggio, è produttiva e utile solamente se ci esorta a creare un mondo diverso, un mondo dove le vittime di ieri non diventino i carnefici di oggi, non si alimentino col dolore delle vittime di oggi. Ma nel senso in cui si fa in modo che nessuno debba essere vittima. C’è un

articolo molto bello pubblicato su Haaretz da un grande intellettuale, filosofo israeliano, Yehuda Elkana, in cui dice: ci sono nella società israeliana due atteggiamenti nei confronti della Shoah, uno è di quelli che dicono che questa cosa non deve accadere mai più. E altri che dicono questa cosa non deve accaderci mai più. Lui dice io sono con i primi e credo che la seconda posizione è una posizione che ci porta alla catastrofe. Io penso che qui ci sia una lettura molto giusta ed illuminata della situazione dell’Israele di oggi che poi produce le catastrofi. Se si pensa solamente al fatto che si debba preservare soltanto se stessi dalla
catastrofe e non anche gli altri, questo porta una rottura del rapporto pacifico e del
riconoscimento dei diritti altrui.
Molto si è banalizzato sul tentativo di diversi esponenti del mondo della cultura, prim’ancora della politica, di dar vita, per le prossime elezioni europee, ad una lista per la pace, che la vede coinvolto.

Il problema è riuscire ad influire sull’identità e sulle scelte politiche dell’Europa. Il vero problema non è tanto chi rappresenta i singoli paesi nel Parlamento, quanto che si riesca ad imprimere un indirizzo diverso alla soggettività, alla coscienza di sé, al ruolo che l’Europa deve avere nel mondo. Se oggi c’è da costruire un ordinamento mondiale che non sia fondato su un sistema di guerra ma lo sia un sistema di pace, l’Europa deve avere un ruolo, una soggettività sul piano internazionale per portare i suoi alleati ma anche i suoi avversari

su posizioni in grado di costruire un vero ordine mondiale pacifico. Di questo si tratta. Oggi ci sono due concezioni che si contrappongono: una è quella che sta scritta in tutti i documenti ufficiali della strategia americana, secondo cui il mondo è un luogo di competizione globale, in cui qualcuno deve vincere sugli altri, e naturalmente gli Stati Uniti si propongono come quelli che devono vincere questa partita e per questo accumulano armamenti, hanno il bilancio delle spese militari più ingente di qualsiasi altro paese al mondo. E poi c’è un’altra idea secondo cui non è affatto detto che la pluralità degli stati o delle potenze debba manifestarsi unicamente attraverso una lotta degli uni contro gli altri per la prevalenza dell’uno o dell’altro, per quella che potrebbe essere una egemonia ma che poi diventa di fatto una forma di dominio imperiale. Non è scritto da nessuna parte che debba essere così. L’ordine fondato sulla competizione, sulla ricerca della creazione di un unico impero, è un ordine micidiale che necessariamente porta alla guerra. Mentre un ordine pluralistico, multilaterale, che riconosce la varietà delle culture, delle tradizioni, degli ordinamenti giuridici, è l’unico ordine possibile per un mondo integrato, tecnologizzato come è quello di oggi.

_____________________________________________________________________________________

Qui un intervento di Marco Alloni

“DUE POPOLI, DUE STATI”. SÌ, MA DOPO? da IL FATTO QUOTIDIANO 15 novembre 2023

Poche, ma autorevoli voci hanno richiamato in questi giorni l’attenzione sul fatto che “estremismo produce estremismo”, ovvero che alimentare la disperazione palestinese equivale di fatto a fortificare Hamas. La domanda supera allora il piano morale e diventa geostrategica: a chi conviene tale estremismo, a parte le leadership di Netanyahu e Hamas? A nessuno, naturalmente. Ma a questo punto c’è da chiedersi: laddove è inverosimile figurarsi nei due estremismi una “miopia politica” tale da trascurare i propri effetti, a cosa mira realmente l’oltranzismo di quei due fronti?

Nel dibattito in corso una valutazione prospettica è quasi del tutto assente, essendo il leit-motiv dei moderati, secondo un ritornello che si ripete dagli accordi di Oslo in avanti: “Non esisterà pace se non nel rispetto delle reiterate risoluzioni delle Nazioni Unite e nella configurazione di due Stati indipendenti”. Vale a dire: “Senza il ritiro di Israele dai territori occupati nel 1967, il conflitto sarà destinato a protrarsi in eterno”.

A fronte di questa trasversale ragionevolezza si pone però, in controcanto, oltre alla sistematica disattesa dei suddetti accordi da parte dei governi israeliani di Netanyahu, un’incognita terrificante, a cui i due estremismi prestano orecchio dal tempo dell’appello del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser a “buttare a mare gli ebrei”: e poi? Un richiamo all’intransigenza radicale che potrebbe essere declinato in un perentorio: quand’anche si giungesse alla soluzione di “due popoli, due Stati”, quale nuova minaccia tornerebbe a incombere su entrambi?

È la domanda sottaciuta che motiva Hamas non meno del Likud. Quasi nessuno, in Palestina, dopo 80 anni di suprematismo militare israeliano, crede all’ipotesi di un vicinato e di uno status quo pacifici e duraturi. Lo auspicano, ma non lo credono. Ma soprattutto quasi nessuno, in Israele, nel “non detto” e nei terrori dell’inconscio, crede che la partita con gli arabi potrà finire con la concessione di uno Stato sovrano ai palestinesi. E questo perché la “anomalia Israele”, di fatto funzionale alla fitna (“sedizione”) che da decenni gli Usa promuovono in Medio Oriente, non potrà essere sradicata se non nella prospettiva, utopistica e negletta da ogni Realpolitik, che nuove “strutture dell’immaginario” prendano vita in Terra Santa. Le stesse strutture che i grandi interessi del potere – ormai potere del capitale – hanno bandito dal proprio vocabolario: riconoscimento della radice semitico-abramitica che sottende ai tre monoteismi, etica del disarmo incondizionato, riabilitazione di una condivisa “antropologia delle differenze” e superamento della subordinazione alla bellicistica Pax Americana.

Siamo pronti a credere in uno scenario di questa natura? Purtroppo no. Perché è nell’ordine delle aberrazioni del capitale favorire la contrapposizione e ostacolare ogni possibile lavorìo nel segno della lungimiranza filosofica e morale.

È vero, anche la stampa rimuove spesso tali voci dal discorso per alimentare l’unico lettorato residuo, quello delle “tifoserie del contingente”. Ma allora non resta se non scegliere a quale Apocalisse votarsi. E laddove, all’angolo, alitano le brame di Iran, Cina, Russia, Nato e Stati Uniti, è doveroso domandarsi: davvero ci importerà un giorno tifare per l’Ecatombe invece che per l’Uomo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *